Rita Atria, la più giovane testimone di giustizia italiana morta nel silenzio assordante delle istituzioni
CASTELVETRANO- Ho dormito con Rita, per mesi, per settimane. Con Rita, ovvero con il libro che hanno scritto su di lei e per lei, tre donne: Graziella Proto, Giovanna Cucé e Nadia Furnari. Ho accarezzato la copertina di questo libro per intere notti. Ho avuto scolpito dentro il volto e gli occhi profondi di Rita, da quando ho con me il libro.
Il suo sorriso appena accennato mi ha fatto compagnia nei miei giorni pieni di interrogativi sulla sua storia che giunge a me perché lei ha bisogno di voce e di parole, tutte quelle che ad un certo punto non ha potuto più dire. Rita potrebbe avere adesso 48 anni, a settembre 49. Potrebbe essere mia sorella, potrebbe essere mia amica, una mia ex compagna di Istituto Superiore.
Davvero pochi chilometri ci separano. Castelvetrano e Partanna sono così vicine. Gli anni che oggi avrebbe sono altrettanto prossimi ai miei. Eppure forse perché in un folle volo, la sua vita si è fermata per sempre a 17 anni, la sento quasi un po’ figlia. Sì, se avessi avuto un’altra figlia così l’avrei chiamata: Rita.
Guardo la copertina del libro che da mesi ormai è inseparabile da me. Noto la mano su cui dolcemente poggia il suo volto. E’ ritratta in questa posa. Come se dovesse poggiare il suo capo, troppo pieno di dolore e fatica sulla sua mano, per aiutarsi inconsapevolmente a reggerlo. Anche io lo faccio spesso. In molte mie foto anche io poggio spesso il mio viso sulla mano. La sento figlia, con il cuore gonfio di rabbia e verità. Di ingiustizie e soprusi.
Troppo presto, morire solo a 17 anni. Ma il suo sguardo fiero, il suo carattere forte, il suo coraggio di giovane donna non sono morti su quel marciapiede in Viale Amelia. Un tonfo e quei sette piani sono implacabili assassini. Avrei voluto stringerle la mano in quel 26 luglio del 1992. Lo fa una perfetta sconosciuta, a cui va il mio grazie e il grazie di tutte le persone che non ci sono potute essere. La signora Lucia, corre giù dal suo appartamento. Si precipita sul corpo di Rita che rantola sull’asfalto rovente su una via qualsiasi della zona sud-est di Roma. Nessuno sa chi veramente sia, nessuno sa la sua storia. Nessuno dei suoi familiari può essere presente. Il padre è morto tanti anni prima, in un agguato mafioso, mafioso pure lui. Il fratello a cui Rita era molto legata ha avuto la stessa implacabile sorte. La madre, la signora Giovanna ha scelto di restare a Partanna chiusa nella sua casa macchiata di sangue e orrore. Un marito e un figlio uccisi. La figlia maggiore Anna Maria, per scelta è andata a vivere lontano dalla Sicilia, insanguinata da una faida crudele e senza scampo tra cosche mafiose, gli Accardo e gli Ingoglia che si fanno la guerra per il potere assoluto. Anna Maria la sorella più grande della piccola Rita, vuole mettersi in salvo, scacciare dal suo cuore e dalla sua vita, quella lettera scarlatta con cui è impossibile vivere nel proprio paese: essere figlia e sorella di mafiosi.
Non c’era nessuno accanto a Rita lì su quel marciapiede, mentre per le fratture e i traumi lentamente si avviava verso la morte. Non vi erano il padre e il fratello morti da anni, la sorella lontana al Nord che nulla sapeva dove si trovasse la giovane Rita, non vi era la madre, non vi era una scorta. La più giovane testimone di giustizia italiana muore nel silenzio assordante delle istituzioni. Non vi era nessuno a custodirla, a proteggerla, a vegliare su di lei.
Muore sola, abbandonata da tutti, con la mano della signora Lucia che le accarezza la spalla, il volto, prima dell’arrivo dell’ambulanza in una corsa disperata verso l’ospedale San Giovanni, in cui dal coma profondo Rita passerà irreversibilmente verso la morte. Anche all’ospedale è sola. Nessuno è in sala d’ attesa con lo strazio nel cuore ad attendere il miracolo. Resta sospesa tra la vita e la morte per alcune ore, in un limbo in cui pare trovare pace. Quella pace che lei ha sempre cercato ma che sapeva sarebbe stata un sogno da vagheggiare senza resa ma un sogno.
Muore dopo meno di una settimana dall’uccisione brutale del giudice e magistrato Paolo Borsellino a cui Rita era molto legata, quasi fosse quel padre buono che avrebbe desiderato sempre avere. Muore e sembra che con il giudice Borsellino muoia la sua speranza di essere protetta. Ma Paolo Borsellino non era tutto lo Stato, non era tutta la Magistratura, non era tutte le Istituzioni che avrebbero dovuto prendersi cura di una ragazzina, una minorenne, partita dalla Sicilia, sotto copertura, perché aveva avuto il coraggio di dire e raccontare nomi, cognomi, fatti di mafia. Perché aveva avuto il coraggio indomito e fiero di denunciare atti criminali, omicidi, estorsioni, giro di droga, di armi, delitti atroci. No, Paolo Borsellino non era l’unico che poteva o doveva proteggerla.
Rita, orchidea lei stessa, così come nel suo testamento, quasi presentendo che la sua vita lunga non sarebbe stata, aveva scritto di desiderare alla sua morte, muore sola. Una rosa rossa e una orchidea sulla bara, abiti neri, un papillon, capelli sciolti, così dice, nel suo testamento di voler morire. Un funerale essenziale, senza troppo clamore. Pochi i presenti che avrebbe voluto, non la madre. Non credo che in Rita vi fosse odio per quella donna, solo una incontrovertibile contrapposizione di scelte su quale parte stare al mondo.
Impossibile vivere in due mondi contemporaneamente. Si può stare o da una parte o dall’altra. O piegati e sopraffatti dalla Mafia, testa china e bocca chiusa o dalla parte della giustizia, della verità. Testa dritta, bocca aperta per parlare senza paura. Ovvero con la paura dentro le ossa ma con la consapevolezza di essere dalla parte giusta. Di fare il proprio dovere da giovane donna, da cittadina, da figlia che cerca risposte sugli assassini del padre e del fratello, nonostante sappia che sono mafiosi, criminali, con atteggiamenti prevaricanti, lesivi della dignità umana, assassini.
Nonostante tutto, sono il padre e il fratello, sono le radici inquinate e tossiche da cui viene Rita. Prendere le distanze è necessario, inevitabile. Sognare un mondo più giusto e onesto è un diritto, non solo un dovere. Rita lo sa. Lo sa quando prende quella corriera e piuttosto che andare a Sciacca a scuola va dritta in Caserma a Marsala e comincia a raccontare quello che in tanti anni ha visto, ha ascoltato, ha custodito, ha intuito, ha vissuto. Rita lo sa che da quel momento in poi la sua vita sarà un’altra. Sarà una vita che non conoscerà più la spensieratezza e l’allegria di una adolescente. Le feste, i balli, gli amori, i giri a zonzo per il paesino, le giocate a carte con gli amici. Rita lo sa che da adesso in poi sarà chiunque e nessuno. Che comincia un calvario di nomi nuovi, di valige da fare e disfare, di traslochi, di case anonime, destinazioni ignote. Sarà un fantasma per gli altri, forse anche per sé. Una testimone di giustizia fondamentale per la Magistratura in un processo che consegnerà alla giustizia più di 50 persone e che accenderà dubbi e solleverà inchieste non solo sui soliti nomi noti ma anche su nomi insospettabili, su politici affermati, su cariche dello Stato colluse in una zona d’ombra che non dovrebbe esistere. Nomi coinvolti in giri di soldi pazzeschi, in finanziamenti pubblici che sarebbero serviti per la ricostruzione anche del suo paesino colpito dal dramma devastante del terremoto del Belìce, nel 1968.
Ma quei finanziamenti si disperdono in rivoli senza esito. Dove finiscono quei soldi? Dove è la ricostruzione della valle del Belìce e come è stata concretamene realizzata se ancora oggi molti paesi della mia terra restano incompiuti? Incompiuto come tutto sembra essere in questa Trinacria feroce che spesso non vuole avere lo sguardo alto e pulito di Rita. Che non vuole accettare che sia possibile cambiare, scegliere di essere dalla parte giusta. Perché chi lo fa viene fatto fuori. Come vengono fatti fuori magistrati, giudici, giornalisti, sindacalisti, pentiti, testimoni di giustizia, solo per aver scelto la verità, senza compiacere il sistema, senza resa fino all’ultimo respiro o rantolo. Eppure Rita di cui ancora oggi troppo poco si parla, troppo poco si sa, troppo poco si è fatto, è vera. E’ stata una ragazza in carne ed ossa. Non è un miraggio o un sogno. E’ una giovane donna siciliana che ha rinunciato ai suoi progetti per il futuro, al suo desiderio legittimo di essere amata e di amare, magari essere moglie, madre, magari potersi godere i suoi nipoti, magari diventare una professionista. Chissà cosa sarebbe potuto essere se quel 26 luglio la sua vita non fosse finita lì su quel marciapiede, senza potere dire chi o cosa veramente sia accaduto. Suicidio, è stato scritto e detto ovunque. Caso archiviato. Caso scomodo. Meglio chiudere tutto.
Rita dopo la morte di Borsellino cade in depressione, si getta dal balcone. Ma perché sarebbe andata così? Almeno chiediamocelo. E’ quello che fanno tre donne: Graziella, Giovanna, Nadia.
L’ Associazione Nazionale Antimafie Rita Atria e la sorella di Rita hanno chiesto la riapertura del caso Rita Atria, facendo ricerche infinite, contattando chi ha potuto vedere, intuire, capire qualcosa. E il libro-inchiesta pubblicato nel maggio del 2022 da Marotta & Cafiero, a firma Cucè -Furnari- Proto pretende ascolto e non può non averne. Non si può sprecare così come nulla fosse la vita di una ragazzina coraggiosa e forte. Accontentarsi ogni 26 luglio di riporre una corona di fiori sulla sua tomba nel cimitero di Partanna dove è stata tumulata. Troppo poco. Non basta. Bisogna fare luce, capire, ascoltare, indagare, cercare ancora.
Perché Rita è morta sola? Perché non vi era nessuna scorta? Perché il Tribunale dei Minori non ha disposto particolari attenzioni per una minorenne? Perché nessuno sapeva in Procura a Marsala dove fosse? Perché I suoi occhi continuano a guardarmi chiedendomi verità? Lo ha detto lei: “la verità vive”. Allora non è morta su quel marciapiede, allora bisogna fare uno sforzo in più, avere il coraggio che ha avuto questa ragazzina che potrebbe essere la sorella di tutti, l’amica di tutti, la figlia di tutti. Ma di sicuro non possiamo restare indifferenti e impassibili.
Prima di scrivere questa riflessione amara e dolorosa, ho sentito Nadia Furnari, le ho detto: “Ho letto tutto il libro, ho visto il servizio speciale dedicato a Rita. Ho i brividi. Scriverò per la picciridda. E’ l’unica cosa che posso fare per lei. Rita lo sa, ho solo le mie parole da poterle donare.” Nadia mi ha risposto: “L’hanno lasciata sola. Ci hanno lasciati soli. Rita ha bisogno della tua voce, delle voci di tutti noi. Grazie Bia.”
Sola, mi riecheggia questa parola, mi strazia. Ritorna alla mia mente la frase di Francesca Morvillo rivolta verso il suo amato Giovanni: “Ti hanno lasciato solo”. Ritorna la consapevolezza di Paolo Borsellino che dopo la morte dell’amico fraterno Giovanni Falcone, lavora giorno e notte per portare avanti più velocemente che può le indagini, perché sa che è solo. Sola è Rita. Sola in vita, per le sue decisioni, sola durante la morte. Sola mentre scrive il suo diario, sola mentre si muove per le vie di Roma, sola con il suo dolore e la sua sete di verità. Sola, ancor di più dopo la morte di Paolo Borsellino. Sola, senza Gabriele, il fidanzatino che nulla sa che Rita, il 26 luglio del 1992 è già in un obitorio. Sola, tra quei pochi metri di quell’appartamentino al settimo piano in viale Amelia, civico 23, in cui appaiono, scompaiono oggetti, frasi, disposizione di mobili e in cui si ritrova la sua carta di identità, con nome e cognome. Quasi a ribadire fino alla fine chi è, senza paura, senza mistificazioni, senza compromessi, pur sovvertendo le regole dei testimoni di giustizia a cui viene rigorosamente tolta la carta di identità con le proprie generalità e ne viene consegnata un’altra. Eppure Rita muore con il suo nome e cognome impressi nel suo documento di identità. Chi entra nell’appartamento di Viale Amelia, quel maledetto 26 luglio, dalla finestra trova: nome, cognome, età e comune di nascita di Rita. Non potevano che scegliere un titolo migliore per il loro libro-inchiesta, le scrittrici: Io sono Rita, non una giovane donna qualunque, ma Rita Atria. Se ne va senza disturbare nessuno ma se ne va a testa alta e con il coraggio indomabile di una guerriera. Ha pagato il prezzo, il fio, il conto. Lo ha pagato da donna, non da mafiosa. Non da ragazza nell’ombra. Lo ha pagato con la vita, come i grandi eroi del quotidiano, perché ha fatto il suo dovere fino alla fine, non accettando compromessi, collusioni, compiacenze. Se ne va eppure resta. Resta in questo libro inchiesta, resta nel coraggio di chi parla di lei senza paura.
Resta in chi come me le sorride e non può che donarle la propria voce. Resta simbolo di una Sicilia che vuole cambiare, che vuole rinascere, che vuole vivere di verità. Una Sicilia che vuole sognare un mondo pulito, onesto, migliore come lo sognava lei ma non in maniera sentimentalista e romantica. Lo vuole sognare costruendolo, con coraggio, dedizione, passione, senso del dovere, senza vie comode. Picciridda mia, grazie per essere entrata nella mia vita, per aver squarciato verità preconfezionate sulla tua storia, per avermi suggerito parole e la forza di scriverle. Perdonaci Rita, se ti abbiamo lasciato sola. Se ti abbiamo fatto sentire abbandonata, senza alcuna protezione e cura.
Perdonaci per l’assenza delle Istituzioni, per chi doveva esserci e non ci è stato. Te lo dico dopo quasi trenta anni dalla tua morte. Ma te lo dico, da donna, da docente, da scrittrice ma soprattutto da siciliana. Perché la tua storia non è finita su quel marciapiede e in quegli archivi. Te lo hanno promesso prima di me, Graziella, Giovanna, Nadia. Te lo prometto anche io. Se può servire a qualcosa, se può servire ancora, ecco le mie parole. Ecco il mio amore incondizionato per te, ecco la mia carezza sul tuo viso, sulla tua spalla, ecco il mio sorriso mischiato al tuo, ecco la mia rosa rossa sulla tua indomita forza.
Bia Cusumano