OMELIA DELL’ARCIVESCOVO MONTENEGRO IN OCACSIONE DELLA FESTA DI SAN CALOGERO

Pubblichiamo l’omelia pronunciata dall’Arcivesco di Agrigento, Francesco Montenegro, nella ricorrenza della festa di San Calogero.

La Parola di Dio or ora ascoltata ci ha fatto capire cosa fare per diventare santi “a immagine del Santo che ci ha chiama-ti”. La Chiesa, ci aiuta in questo, proponendoci il loro esempio perché noi, come loro, vivendo una sincera conversione, ci incamminiamo seriamente sulla via della santità. Con questo spirito celebriamo la festa di San Calogero la cui intercessione invochiamo su ciascuno di noi, sulle nostre famiglie e sulla nostra città. Isaia rappresenta la Parola di Dio come la pioggia che cade e, non può tornare al cielo, senza aver portato frutto. Gesù, invece ci dice che affinché vi sia frutto non solo occorre che il Seme – cioè la Parola – cada nel terreno, ma è necessario che anche il terreno – cioè noi – si lasci fecondare dal seme. Dio semina la Sua grazia continuamente e in vari modi nei nostri cuori; tocca a noi aiutarLo cercando di rendere il terreno del-la nostra vita capace di accoglierLo, togliendo cioé, le pietre del peccato e della cattiveria, le spine dell’orgoglio e della di-sonestà, le strade indurite dalle abitudini sbagliate e pericolo-se. Solo se c’è la conversione del cuore si giunge alla santità.

Così è stato per San Calogero e per tutti i santi. Sono state persone normali, come noi, che hanno lottato contro il pec-cato, che hanno dovuto fare i conti con i limiti della natura umana ma, soprattutto, persone che hanno accolto il seme della Parola e, giorno dopo giorno, gli hanno di portare frutto. Calogero è santo perché ha vissuto una forte amicizia con Dio e perché ha donato la sua vita per i fratelli in difficoltà. Alla fine della parabola, ai discepoli che Gli chiedono per-ché parla in parabole, Gesù risponde con un brano dell’Antico Testamento: “Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca”. Con queste parole smaschera la durezza del cuore dei suoi concittadini che, pur vedendoLo e ascoltandoLo, non si convertivano. La durezza del cuore è un pericolo anche per noi che, pur vedendo, ascoltando, celebrando e professandoci buoni cristiani, spesso diventiamo come quel terreno che si trasforma in strada battuta dove il seme non riesce a germogliare. Dove non cresce il seme prende piede il deserto, e il deserto è sino-nimo di morte. Diventare santi quindi significa scommettere sulla potenza della Parola e lavorare umilmente perché il se-me porti frutto.

Ma come dobbiamo intendere la devozione ai santi anche alla luce di quanto detto? Le devozioni e le tradizioni hanno degli elementi positivi che devono essere custoditi ma, possono avere anche dei limiti, che vanno purificati. Non si può non tener conto che i tempi cambiano, questo implica la ne-cessità di fare scelte idonee con il tempo in cui si vive anche se divergenti con quelle dei tempi passati, non volendo que-sto però significare dimenticare le proprie origini o tradire il passato. Ma come si fa a comprendere se una devozione è vera o è falsa? La risposta, carissimi, ce l’ha data Gesù: se porta frutto! E, sempre Gesù ci ha detto che, dai frutti, si riconoscono gli alberi. Chi sono i santi se non sono coloro che, nella loro vita, hanno portato buoni frutti? Ma, cosa vuol dire portare frutto, se non semplicemente vivere una vita cristiana ricca di opere buone, orientata verso la giustizia, capace di miseri-cordia, piena di amore. I santi sono testimoni con loro la vita e invitano i credenti a cambiare i loro atteggiamenti, a compiere gesti forti, a vivere il Vangelo senza sconti e senza no-stalgia.

Cosa vuol dire essere devoti di S. Calogero se non imitarlo e chiedere il suo aiuto affinché sappiamo scegliere sempre solo ciò che piace a Dio? Rispettare le tradizioni non è semplicemente ripetere ciò che si è sempre fatto, ma riempir-le di senso e comprendere cosa il Signore oggi ci chiede e si aspetta da noi. È grande l’amore degli agrigentini – ed anche mio – per S. Calogero: penso alle persone che arrivano in questo santuario a piedi scalzi, ai vari pellegrinaggi delle di-verse parrocchie della città, ai voti che si fanno, alle preghiere personali… Gesti, questi, che meritano grande rispetto, ma, mentre li compiamo, non possiamo dimenticare che San Calogero ha reso gloria a Dio donando, senza nulla in cambio, tutto se stesso per gli altri, si è fatto “dono”. Calogero passa-va per le vie della città chiedendo il pane per i poveri e i mala-ti, e la gente, per paura della peste lo lanciava dalle finestre. E lui non calpestava il prezioso alimento, ma lo raccoglieva per-ché, con esso, avrebbe sfamato chi ne aveva bisogno. Non comprendo perché, per molti, sia rimasto importante il gesto di gettare il pane (che ai tempi di Calogero era solo un gesto provocato dalla paura del contagio e non dalla devozione per il sant’uomo) e non il desiderio, proprio di Calogero, di aiutare i poveri offrendo loro del pane. Non metto in dubbio il va-lore dei simboli, ma questi hanno un valore solo se veri e non se ripetuti come vuoti ricordi.

Oggi molti nostri concittadini fanno fatica ad andare avanti; molti sono in difficoltà perché hanno perso il posto di lavo-ro e non sanno come portare a casa un pezzo di pane per so-stenere i figli. A tutti sarà capitato di vedere gente che raccoglie cibo dai cassonetti della spazzatura per avere qualcosa da mangiare.

Io ho davanti agli occhi le bare e i volti degli immigrati che arrivano nella nostra terra perché scappano dalla fame e dalla povertà. Mi chiedo, se S. Calogero fosse oggi, qui con noi cosa direbbe? Sarebbe preoccupato di salvare la tra-dizione o chiederebbe di dare il pane ai poveri? Accetterebbe di essere portato in processione o chiederebbe di fermarci e riflettere sulla povertà che avanza sempre più? Sono convin-to che la gloria di Dio non passi attraverso dei gesti che hanno ormai perso il loro significato originario ed anzi, oggi, l’offendono (Gesù ha detto: avevo fame e non mi avete dato da mangiare…), ma attraverso l’amore per coloro che, insieme alla serenità economica, hanno anche perso la speranza. Si buttano le cose che non servono, che sono inutilizzabili perché rotte, ma il pane, alimento primario della nostra vita, non si può gettare, quando c’è tanta gente che, letteralmen-te, muore di fame.

Più che gettare il pane impegniamoci a seminare il bene, a praticare la giustizia, a soccorrere il debole, a vestire chi è nudo, ad accogliere il forestiero. Mi è stata rivolta da alcuni l’accusa di far perdere il significato della fe-sta, accusa questa che rifiuto con forza. Sono disposto, ad andare io personalmente, per le strade della città, a raccogliere il pane per i poveri, ma nessuno può chiedermi di ac-cettare, solo per amore di una tradizione, un gesto che ha perso ogni significato cristiano e umano. Sono persuaso, infatti, che la festa sia un elemento necessario nel cammino di fede, ma lo è nella misura in cui sia vera e fatta nel bene. Come credente e come vostro Pastore sono più preoccupato che si viva e si rispetti il Vangelo che accettare una tradizione che non osservi la Parola di Dio e l’uomo, creatura amata da Dio, che è nel bisogno.

La tradizione religiosa non può diventare folklore. Siamo tutti presi dalla figura di Papa Francesco, ma non sempre diamo la debita importanza a ciò che annuncia.

Nella sua ultima visita a Campobasso ha detto: “La testimonianza della carità è la via maestra dell’evangelizzazione. In questo la Chiesa è sempre stata “in prima linea”, presenza materna e fraterna che condivide le difficoltà e le fragilità della gente”. Non vi pare che dovrebbe farci pensare il fatto che, dalla nostra terra, passino tanti poveri, quegli stessi che s. Calogero amava? È Dio che passa in mezzo a noi. Se fosse un vostro figlio a non avere pane, lo dareste a lui o lo gettereste per amore della tradizione al Santo? Calogero è stato “in prima linea” rispetto ai bisogni di ogni uomo. Ha scommesso tutta la sua esistenza in aiuto di chi era nel bisogno.

Pensiamo a San Calogero, in un tempo contras-segnato dalla carestia, a San Gerlando quando bisognava ri-costruire la città dopo la dominazione araba, a San Giovanni Bosco rispetto all’emergenza dei giovani o a Madre Teresa di Calcutta per la cura dei lebbrosi e dei senza tetto. Sono insegnamenti che devono farci pensare! Altra cosa che mi rattrista e che rifiuto di accettare è che si continui aa affermare che ad Agrigento vi sia il santo dei ricchi e il santo del popolo, ma cosa crediamo che sia il Paradi-so? Un campo di calcio con squadre che si contrappongono? I santi sono di tutti e per tutti! Se vogliamo essere cristiani seri, che vogliono vivere davvero la loro fede alla luce del Vangelo, per favore, non perdiamoci in sciocche ed inutili distin-zioni, fuori dal tempo e offensive per la fede e per i Santi.

Rifacciamoci alla storia del passato, ma non riproponiamola senza tener conto di ciò che la fede ci chiede. Con questo spirito continuiamo la celebrazione eucaristica chiedendo al Signore che non ci faccia mai mancare il seme della Sua grazia per poter vivere pienamente la vocazione al-la santità. Interceda per noi San Calogero, il santo della carità che ha amato tutti con il cuore di Dio. Ci aiuti perché sappiamo imitarlo ogni giorno portando frutti buoni per costruire insieme il regno di Dio.

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