OGGI IL 70° ANNIVERSARIO DELL’UCCISIONE DI ACCURSIO MIRAGLIA, L’UOMO CHE PAGO’ CON LA VITA LA DIFESA DEI DEBOLI
È’ importante trasmettere alle nuove generazioni i valori e il profilo del sindacalista
Oggi, 4 gennaio, ricorre il settantesimo dalla morte del sindacalista saccense Accursio Miraglia, ucciso per mano mafiosa nel 1947. Sono trascorsi sette decenni, diverse generazioni sono cresciute, altre si accingono a farlo. Il tempo passa, spesso allontana i ricordi, le memorie. La storia si sbiadisce e le nuove generazioni sono più impegnate ad aggiornarsi sulle nuove tecnologie, sugli aggiornamenti delle nuove applicazioni. Il mondo attuale va veloce, troppo veloce, tanto da indurre le recenti e nuove generazioni a calare un fitto velo che impedisce di vedere il passato, di capire l’evoluzione di un periodo in cui la fame si coglieva a palate, le ingiustizie sociali comprimevano i deboli relegandoli nell’angolo buio dove la dignità dell’essere umano veniva (e purtroppo avviene ancora oggi) calpestata, mortificata.
Le nuove generazioni hanno un presente più facile dove spesso le conquiste avvengono con un click. Accursio Miraglia aveva 51 anni, quando fu ucciso. Morì “in piedi”, perché non si era voluto piegare alla mafia e agli agrari, perché non volle tradire i suoi contadini. Accursio Miraglia era amato dagli onesti. Non era il primo omicidio di mafia. Prima di lui, erano già caduti tanti altri capilega, ma l’uccisione di Mriaglia fece tanto scalpore in Sicilia e nell’intero Paese. A Sciacca arrivarono tutti i dirigenti sindacali e politici della sinistra, a cominciare dal segretario regionale del Pci Girolamo Li Causi e dal sottosegretario alla giustizia Giuseppe Montalbano.
Il funerale non poté tenersi prima di sei giorni, perché erano tanti i cittadini che volevano tributargli l’ultimo saluto. La bara col corpo di Miraglia rimase scoperta tre giorni all’ospedale civico e tre giorni nel salone della Camera del lavoro. Infine, l’11 gennaio si svolsero i funerali, a cui partecipò l’intera popolazione. I preti non vollero che Miraglia fosse portato in chiesa, perché era un morto ammazzato e per giunta comunista. Ma le esequie civili furono lo stesso solenni ed imponenti. Ed è proprio per non dimenticare, per rinverdire la memoria, che dedichiamo questo spazio alla figura di Accursio Miraglia, ammazzato per difendere i diritti dei deboli.
Nel 70° anniversario, sarà presente a Sciacca il segretario generale della Cgil Susanna Camusso a il presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. Lo ricordiamo, riproponendo un articolo di Dino Paternostro, pubblicato sul quotidiano La Sicilia il 24 aprile 2005.
L’UOMO CHE PAGO’ CON LA VITA PER DIFENDERE I DIRITTI DEI DEBOLI. «Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio!», soleva dire Accursio Miraglia. Una frase presa in prestito dal romanzo di Ernest Hemingway «Per chi suona la campana», ma che lui ormai sentiva come sua. La ripeteva spesso alla moglie, alle sorelle e ai compagni del partito e del sindacato, ogni volta che gli agrari e i gabelloti mafiosi lo minacciavano o gli facevano arrivare l’invito a farsi i fatti propri. In quei primi anni del secondo dopoguerra, Miraglia era dirigente del Partito comunista e segretario della Camera del lavoro di Sciacca. Si era messo in testa di far applicare anche nel suo paese i decreti Gullo sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte o malcoltivate. E il 5 novembre 1945 aveva costituito la «Madre Terra», una cooperativa di centinaia di braccianti e contadini poveri, alla quale fece assegnare diversi ettari di buona terra. Un gravissimo affronto alla “sacra” proprietà privata, che, giorno dopo giorno, faceva imbestialire i latifondisti e i gabelloti mafiosi, che decisero di fargliela pagare.
IL 4 GENNAIO 1947, L’UCCISIONE. Verso le nove e mezza di sera, Accursio Miraglia era appena uscito dai locali della sezione comunista per tornare a casa. A “scortarlo” c’erano quattro compagni: Felice Caracappa, Antonino La Monica, Tommaso Aquilino e Silvestro Interrante. Percorsero un tratto di strada insieme, poi Interrante e Caracappa si staccarono dal gruppo per far rientro nelle loro abitazioni. Gli altri due, invece, accompagnarono il dirigente contadino fino a 30-40 metri da casa sua, lo salutarono e ritornarono indietro. Ma passarono solo pochi secondi e il silenzio fu rotto da numerosi colpi di pistola. Capirono subito che i colpi erano diretti contro Miraglia. La Monica «ritornò indietro e vide un giovane, piuttosto esile, di media statura, con cappotto e berretto, che impugnava un’arma da fuoco lunga, dalla quale fece partire un’altra raffica di colpi. Lo sparatore era in mezzo alla strada, sotto una lampada accesa dell’illuminazione pubblica, e, dopo aver sparato, si allontanò di corsa verso l’uscita del paese. La stessa scena fu vista da Aquilino», scrive Umberto Ursetta, nel volume «Nelle foibe della mafia. Accursio Miraglia e Placido Rizzotto, sindacalisti», che uscirà a giorni come supplemento de “l’Unità”. Probabilmente, insieme a questi due uomini ce n’era un altro, che si allontanò di corsa dopo gli spari. Miraglia morì riverso sulla porta della propria abitazione, tra le braccia della giovane moglie russa, Tatiana Klimenko. Di corsa, erano arrivati La Monica e Aquilino. Poco dopo, arrivarono anche quattro carabinieri, attirati dagli spari.
LA BARA RIMASE SCOPERTA PER TRE GIORNI A CAUSA DELLA FOLLA CHE VOLLE RENDERE OMAGGIO A MIRAGLIA . A 51 anni, Accursio Miraglia morì “in piedi”, perché non si era voluto piegare alla mafia e agli agrari, perché non volle tradire i suoi contadini. E questo lo capirono bene a Sciacca, dove il dirigente sindacale era benvoluto ed amato dagli onesti. Non era il primo omicidio di mafia. Prima di lui, erano già caduti tanti altri capilega. Il delitto Miraglia, però, fece tanto scalpore in Sicilia e nell’intero Paese. A Sciacca arrivarono tutti i dirigenti sindacali e politici della sinistra, a cominciare dal segretario regionale del Pci Girolamo Li Causi e dal sottosegretario alla giustizia Giuseppe Montalbano. Il funerale non poté tenersi prima di sei giorni, perché erano tanti i cittadini che volevano tributargli l’ultimo saluto. La bara col corpo di Miraglia rimase scoperta tre giorni all’ospedale civico e tre giorni nel salone della Camera del lavoro. Infine, l’11 gennaio si svolsero i funerali, a cui partecipò l’intera popolazione.
I PRETI NON VOLLERO CHE MIRAGLIA FOSSE PORTATO IN CHIESA . I preti non vollero che Miraglia fosse portato in chiesa, perché era un morto ammazzato e per giunta comunista. Ma le esequie civili furono lo stesso solenni ed imponenti. In Sicilia, gli operai sospesero il lavoro per dieci minuti. In Italia, per cinque. In tutte le fabbriche suonarono le sirene. Dalla Camera del lavoro al cimitero, la bara fu portata a spalla dai contadini. Era una giornata d’inverno, fredda ed uggiosa, ma non pioveva. Solo quando il corteo funebre arrivò davanti al portone d’ingresso del cimitero, cadde qualche goccia di pioggia, che bagnò la bara. «Un ti vosiru benidiciri l’omini, ma ti binidiciu Diu», esclamò un anziano contadino.
DIETRO L’ASSASSINIO LA LONGA MANUS DELLA CIA? Non c’é dubbio che l’assassinio di Accursio Miraglia, avvenuto quando ancora l’Italia era governata da una coalizione di unità nazionale, che comprendeva tutti i partiti antifascisti, fu voluto dalla mafia e dagli agrari. Come non ci sono dubbi che questi godevano della protezione di “pezzi” della politica e delle istituzioni statali. Il figlio Nicola, però, sulla base delle ricerche storiche di Giuseppe Casarrubea e Nicola Tranfaglia, è convinto che possa esserci stata anche la complicità della CIA americana, come per Portella delle Ginestre: «Probabilmente – dice – un vero processo giudiziario sarà impossibile riaprirlo, ma ad un processo storico non voglio rinunciare». E proprio a questa ipotesi sta lavorando con la fondazione intestata al padre.
LO SCANDALO DELPROCESSO, TUTTI ASSOLTI Tra «aggiustamenti», colpi di scena e ritrattazioni alla fine nessuno risultò colpevole Oltre ad essere un dirigente politico e sindacale della sinistra, Accursio Miraglia era anche direttore dell’Ospedale civico di Sciacca, proprietario di una piccola industria del pesce, amministratore di una fornace per la produzione di laterizi e direttore del teatro “Rossi”. Un personaggio pubblico di rilievo, dunque, la cui tragica fine non poteva passare sotto silenzio. A condurre le indagini sul delitto fu la polizia, che fermò un certo Calogero Curreri, indicato da La Monica e Caracappa (i due militanti comunisti che la sera del 4 gennaio 1947 avevano accompagnato Miraglia) come facente parte del commando omicida. Altri testimoni (tra cui la moglie di Miraglia e le sorelle Brigida ed Eloisa) indicarono nel proprietario terriero, cavaliere Rossi, e nel suo gabelloto Carmelo Di Stefano, alcuni dei possibili mandanti dell’assassinio. In appena nove giorni di indagini, gli inquirenti, quindi, si convinsero delle responsabilità di Rossi, Di Stefano e Curreri, che furono formalmente accusati dell’omicidio, individuandone la causale «nel contrasto, anzi nell’odio, che il Rossi ed i suoi familiari nutrivano verso il Miraglia» per essersi battuto a favore dei contadini. Rossi e Curreri vennero arrestati e condotti nel carcere di Sciacca, mentre non si poté arrestare il Di Stefano perché ricoverato nell’ospedale di Sciacca.
Qualche giorno dopo, fu l’ispettore di pubblica sicurezza Messana a far tradurre il cavalier Rossi dal carcere saccense a quello di Palermo. Durante il viaggio, però, il detenuto accusò un improvviso malore e fu fatto sostare nel famigerato ospedale di Corleone, diretto dal capomafia del luogo Michele Navarra. Qui, il dott. Dell’Aria gli rilasciò un certificato, dove dichiarava che il Rossi «era affetto da enterorraggia in atto». Una patologia sospetta, ma “provvidenziale”, che ne consigliò il ricovero nella clinica Orestano di Palermo, evitandogli così l’onta del carcere. Ma i colpi di scena non finiscono qui. Giorni dopo, la polizia trasmise alla Procura della Repubblica di Palermo le “carte” dell’inchiesta, che in pochi giorni ordinò la scarcerazione degli imputati per mancanza di elementi concreti di colpevolezza. «In effetti, gli indizi raccolti a loro carico appaiono molto fragili e di difficile tenuta in sede processuale», osserva Umberto Ursetta. Aggiunge, però, che fu forte il sospetto che l’ispettore Messana ebbe troppa fretta di chiudere l’indagine, presentando «denuncia contro alcuni individui sospetti, non sostenuta da alcuna prova, allo scopo di farli subito scarcerare e lasciare quindi il delitto impunito». La decisione della Procura di Palermo suscitò molte proteste. L’on. Li Causi e l’on. Montalbano presentarono un’interrogazione parlamentare, chiedendo che le indagini fossero rifatte in maniera approfondita. E qui un nuovo colpo di scena. La polizia e i carabinieri arrestarono nuovamente Calogero Curreri, ma stavolta insieme a Pellegrino Marciante e Bartolo Oliva.
I primi due, interrogati dagli inquirenti, confessarono il delitto ed indicarono quali mandanti il cavalier Rossi, il cavalier Pasciuta, il cavaliere Vella e il gabelloto Carmelo Di Stefano. Caso risolto, dunque? Nemmeno per sogno. Davanti al Procuratore di Palermo, Curreri e Marciante ritrattarono le loro confessioni, accusando le forze dell’ordine di averle estorte con violenze inenarrabili. Il giudice, quindi, prosciolse tutti per non aver commesso il fatto, denunciando per torture e sevizie il commissario Giuseppe Zingone, il maresciallo dei CC Gioacchino Gagliano e il brigadiere Salvatore Citrano, il maresciallo di P.S. Angelo Causarano e gli agenti di P.S. Vincenzo La Greca e Ernesto Moretto. Incredibilmente, però, anche il procedimento penale contro i “torturatori”, avviato dalla Procura di Agrigento, si concluse col loro pieno proscioglimento. Ma, se non ci furono violenze, gli imputati dell’assassinio non avrebbero dovuto essere assolti. E, nel dubbio, s’imponeva almeno la riapertura delle indagini. Invece niente. Solo un colpevole silenzio, che dura fino ad oggi.