NUCCI, SGUARDO E MAL DI SICILIA. IL MAESTRO SACCENSE RACCONTATO DA ENZO SICILIANO

Pubblichiamo, in ricordo del maestro Enzo Nucci, una recensione dello scrittore, critico d’arte e del costume Enzo Siciliano, scomparso nel giugno 2006, dedicata al maestro saccense

Con la propria pittura Enzo Nucci testimonia di un suo mal d’Africa. Ma l’Africa che dipinge non è né l’arso Sahara, né la giungla di un sempre possibile Hearth of Darkness, né l’altrettanto possibile Kilimangiaro scintillante nel sole con le sue nevi leggendarie.

Quella di Nucci è soltanto un presagio d’Africa. Nucci dipinge la costa siciliana distesa contro il mare aperto che guarda la Libia, una costa di palme e carrubi, addossata sotto un cielo che la logora di luce, la disfa nei colori, la fa agonizzare con il pe¬so del suo mito antico. Un continuo ritorno a quel mito, a quei colori, a quella luce è quanto accade sulle tele, sulle carte di Nucci.

Appunto, carte e tele sono effetto di un male che rinasce come una nostalgia -favoloso mal d’Africa, mal di odori e di luminosità oniriche, ubriacante, – che poi nostalgico non è, poiché insiste accanito su immagini sempre identiche, dai precisi volumi, le palme, le case calcinate, le colline che si alzano come dorsi di pecore una dopo l’altra, campi incendiati, il cielo di un blu che è paonazzo.

Insomma: un male che è un’ossessione. E vero che un altro pittore nato su quella costa, parlo di Piero Guccione, sembra altrettanto posseduto della medesima luce, del medesimo mare, gli stessi carrubi che da lontano fanno butterate quelle terre. E una luce, è un cielo, sono colori che stremano, divorano tutto il tuo sguardo e fanno di te uno schiavo.

Ma Guccione costringe la propria ossessione a logorarsi, a propria volta, su lunghi tempi di lavoro, ne fa un oggetto, anzi un solvente per i propri colori, per le proprie materie.

Nucci, invece, è proprio un soggetto posseduto. Il male felice che lo assorbe ne tramuta il gesto con effetti di furore teso. Cielo, aria, colori diventano sforzo prolungato delle dita, risultato di una pressione che non molla, o di una delicata ma non irrilevante tachicardia. Spesso, su una tela di Nucci sembra cercarsi una dimensione prospettica. Per esempio, nel Giardino armonioso dell’89: dal basso verso l’alto, l’occhio percorre una profondità che lo spinge dal suolo al cielo che è lontano, oltre le palme, oltre le case che si incontrano a mezza strada nel percorso. In alto: un cielo che si schiarisce di rosa, che si perde nella debolezza di un sogno. In questa illusione prospettica, le case stipate nella calcina che le difende sotto l’azzurro fanno argine, difesa, anche se appaiono scancellate dal ritmo annodato delle palme. Sulle terre e i verdi, l’apparizione evanescente di una architettura sembra voler scardinare il flusso della ammalata nostalgia.

Nell’Antica casa baronale del ’91, la porta con i vetri opachi al centro del muro, con la sua corsiva storia di cose, di giorni accatastati e in rovina, pare incardinarsi nello spazio per evitare che l’erosione fantasmatica della luce, delle tinte, del rosa morboso che contagia tutto, prevalga.

Nel suo mal di Sicilia sud occidentale Nucci pare cercare una difesa nella storia, stipata nel silenzio delle case, dei segni architettonici che le adornano. E la sua pittura, effetto di una furia subita negli occhi, nell’animo, vibra in questa dialettica: fra storia e natura.

Guardiamo Paesaggio d’estate del ’93. Anche qui l’effetto prospettico è evidente. L’occhio deve seguire una costruzione ideale ed emotiva che dal lembo inferiore della tela sale alla volta della casa – finestre decorate da lievi cornici di stucco, che sono tracce di lavoro umano; ed effetto di opera umana è anche la palma che invade il campo d’una porzione della facciata. Il cielo stavolta è schiacciato contro l’orlo superiore dell’intelaiatura. Ma un giallo bruciato, sfibrante, divora, invade l’intera superficie. Un’estrema fissità prodotta dal calore assorbe ogni cosa, impregna anche la calcina della casa come un vapore o una lebbra leggera ma insidiosa.

Diciamo che l’estate, il disteso, feroce mezzogiorno dell’estate mediterranea, mette a rischio o rende difficile, drammatica, quella dialettica. La resistenza della storia sulla natura appare senza efficacia. Eppure. Un altro Paesaggio d’estate, datato ’94, collina, terra, un carrubo perduto sotto la piega della collina, una progressione orizzontale di verdi impastati che vanno in parallelo e si allineano alla progressione orizzontale del cielo grigioazzurro, individua una diversa configurazione di quella dialettica.

La storia, su questa tela, ha una certezza d’altro tenore. Non ha bisogno di configurarsi nei simboli umani (architetture, case o le palme tanto amate). La pittura di per sé gliela offre. La soluzione, cioè, scarta sulla materia: vince il flusso pittorico su qualsiasi disposizione di figura, – e la figura è la pittura stessa, pittura che è immagine di per sé, visione che si riduce alla traccia degli oli stesi, raschiati, sul fondo di base. 

Nucci, lo dobbiamo dire, sa vedere, e vedere pienamente. Il suo mal di Sicilia è la sua vittoria, – modo esclusivo per catturare la violenza di una luce, di un cielo stupefacenti.

(Foto di Filippo Cardinale)

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