Mario Draghi ottiene la fiducia ma non ha più la maggioranza
Alla fine di una giornata «di follia», come la riassume il segretario del Pd Enrico Letta, il non voto in Senato da parte non solo del Movimento 5 Stelle ma anche del “centrodestra di governo”, come hanno continuato a definirsi fino all’ultimo Lega e Forza Italia, certifica la fine delle larghissime intese. Non c’è più quella unità nazionale che, nelle parole del premier in Aula, garantiva «legittimità democratica ed efficacia» all’esecutivo. La fiducia, tecnicamente, Draghi la incassa comunque da parte di Pd, Leu Ipf, il centro di Toti. Ma ottiene solo 95 sì. Un dato che lo porterà ad annunciare le dimissioni all’inizio del dibattitto sulla fiducia alla Camera per poi salire in giornata al Quirinale.
Non sono bastati, insomma, i 5 giorni di decantazione che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva imposto al premier prima di rendere definitive le dimissioni, annunciate perché era venuto meno quel «patto di fiducia» che Draghi ha riproposto al Parlamento. Ma con toni e modi che hanno fatto infuriare soprattutto la Lega, poi tutto il centrodestra, riunito a Villa Grande. Ma anche i 5 Stelle, per “l’atteggiamento sprezzante», come lo definisce Giuseppe Conte, silente per tutto il giorno, ma che a sera sbotta: «siamo stati messi alla porta».
Basta ambiguità, è la richiesta del premier nei 36 minuti del suo intervento. Si rivolge, senza citarli direttamente, soprattutto a Lega e M5s che non a caso non si uniscono all’applauso che segue la fine del discorso in Aula. La Lega non applaude mai, notano con una certa soddisfazione gli alleati di Fdi. Certo, Draghi apre all’autonomia, alla riforma delle pensioni, ai miglioramenti al reddito di cittadinanza, al mantenimento degli obiettivi di transizione ecologica, alla risoluzione delle criticità sul Superbonus. Ma poi, incalza: non si può chiedere la sicurezza energetica per gli italiani e al tempo stesso «protestare» contro i rigassificatori. Non si possono sostenere le riforme e poi dare la sponda alla piazza, come nel caso dei taxi. Bisogna continuare ad armare l’Ucraina perché resta l’unico modo «per aiutare gli ucraini a difendersi». Nella replica, invece, è duro ed esplicito. Risponde alle critiche del M5s su superbonus e salario minimo. E respinge l’accusa di diversi senatori di avere di fatto chiesto “i pieni poteri”: «La democrazia – quasi sibila – è parlamentare ed è la democrazia che rispetto e riconosco».