MANNINO: “CHE IL PAPELLO FOSSE UN IMBROGLIO SI VEDEVA GIA’ DALLE CARTE”
“Diciamolo chiaramente, quello sulla trattativa è un processo costruito mediaticamente”
L’ex ministro Calogero Mannino, dopo la lattura delle 513 pagine della motivazione della sentenza di assoluzione depositata dal Gup Marina Petruzzella, ha rilasciato una dichiarazione all’agenzia Adnkronos.
“Che il “papello” fosse un imbroglio lo si vedeva già dalle carte, e ora la gup nelle motivazioni della sentenza d’assoluzione non fa che confermarlo. Così come spiega che non solo gli elementi indiziari del processo fossero ‘inadeguati’, ma che non fossero idonei a fare un processo. E non lo dico io, da imputato assolto, ma il giudice”.
Su Calogero Mannino pendeva un’accusa gravissima: minaccia a corpo politico dello Stato, in una tranche del processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, che vede tra gli imputati l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino, ma anche il generale Mario Mori e l’ex senatore Marcello Dell’Utri.
La sentenza di assoluzione risale al 3 novembre del 2015, e il gup Petruzzellal’ha depositata a distanza d quasi un anno.
“La mia linea di difesa è stata concentrata sul punto essenziale: una ipotesi di mia corresponsabilità nella trattativa – dice all’agenzia Adnkronos- Avendo la coscienza tranquilla, ho sempre escluso che sulla trattativa io abbia esercitato la benché minima influenza o iniziativa, e abbia avuto il benché minimo interesse. I miei rapporti con i Carabinieri che poi la Procura ha concentrato nei rapporti con il generale Antonio Subranni, o con il maresciallo Giuliano Guazzelli, sono rapporti che si collocano in una linea istituzionale. Insomma, “la mia linea difensiva è che io non c’entro con la trattativa, ammesso che ci sia stata”, dice Calogero Mannino. Che aggiunge: “Io attendo giustizia da 23 anni…”.
“Adesso c’è da fare un’altra riflessione – aggiunge Calogero Mannino – Il giudice ha preso il processo istruito dal suo collega Piergiorgio Morosini (oggi componente del Csm ndr). Se si va a guardare l’ordinanza del rinvio a giudizio, Morosini conclude sempre con un dubbio. Dice, ad esempio, che “bisogna che i pm provino che Mannino ha influenzato l’avvio della trattativa”. Quindi, Morosini ha chiesto ai pm di indicare le prove, la gup Petruzzella ha trovato che queste prove non ci sono e tutti gli embrioni di prova, essendo suggestioni-sospetti, sono del tutto inadeguati, per quello che mi riguarda”.
“Ma avendo raccolto l’impianto processuale nel suo insieme – aggiunge l’ex ministro Mannino – lei ha dovuto anche affrontare l’argomento Ciancimino, e lo dice sulla base delle carte di Morosini. Le va dato onore al merito, ha preso tutti i fascicoli del processo e li ha studiati”. Nelle motivazioni sono pesanti le valutazioni che il giudice esprime su uno dei principali testimoni del processo, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Le sue dichiarazioni vengono considerate dal gup Petruzzella come “farraginose”.
E la copia del papello che ha consegnato, “una grossolana manipolazione”. “Che il papello fosse un imbroglio era una cosa che si vedeva nelle carte”, ribadisce oggi Calogero Mannino. Che aggiunge: “Diciamolo chiaramente, quello sulla trattativa è un processo costruito mediaticamente, Secondo lei: io la prima udienza del processo l’ho fatta in Tribunale o in televisione da Michele Santoro? Anzi, devo dire che all’epoca Santoro si comportò con misura e vorrei dire quasi con lealtà. E’ una costruzione mediatica”.
Mannino se la prende anche con i giornali: “Quotidiani nazionali importanti – dice – che hanno avuto un ruolo fondamentale nel creare opinione pubblica, si sono limitati a trafiletti o piccoli articoli…”.
“Poi, la gup dice un’altra cosa molto importante, che io ho sempre sostenuto: guardate che le stragi hanno la motivazione della vendetta del maxiprocesso ma hanno risposto a un disegno eversivo, e questa è storia. Su questo processo dovremmo fare ricerche storiche”.
Poi, tornando a parlare del teste Massimo Ciancimino, ritenuto dal gup inattendibili, Calogero Mannino dice: “Io non ho mai parlato di Ciancimino figlio, neppure nelle mie dichiarazioni spontanee. Per Ciancimino figlio non parla mai di me. Io ho sempre fatto presente che a mio giudizio l’esclusione di Ciancimino padre dall Dc nel 1983 sia stata una causa della linea di fondo di tutta la vicenda criminale siciliana”.
“Ora il gup dice una cosa importante: Ciancimino padre non aveva buoni sentimenti nei confronti della DC e di alcuni democristiani. Ma poi dice di più: Caselli e Ingroia come ve lo siete caricati in più interrogatori nel 1993? Non vi è venuto in mente che questo signore, per i suoi interessi personali, potesse indurvi, influenzarvi, orientarvi su piste false? Le pare poco questo? Lei mette in dubbio il padre”.
“Insomma, con questa sentenza, il giudice non solo ha accolto le mie tesi difensive, attenendosi strettamente ad esse, ma è andata oltre”. E poi critica l’ex pm Antonio Ingroia che ha fatto dichiarazioni sulle motivazioni della sentenza: “Ma chi è Ingroia? Perché si dà questo rilievo a un’opinione del semplice cittadino Ingroia. Dismesso l’ufficio, dismessa la funzione, c’è solo il silenzio”. Mannino, poi sull’appello che la Procura si prepara a fare dice: “E cosa altro mi devo aspettare? Pensate che subito dopo la sentenza un pm disse che la Procura avrebbe fatto opposizione, non disse ‘Faremo appello, ma opposizione”.
Da 23 anni attendo giustizia. E noi attendiamo con pazienza anche l’appello. Tanto i santi martiri della Chiesa sono pazienti…”.
Questa,invece,l’intervista rilasciata al giornale online il Dubbio.
Avoler fare i conti si deve partire dall’inizio del ’93. A quell’epoca risale la prima iscrizione di Calogero Mannino nel registro degli indagati. «Una sofferenza: la mia, certo. Ma si dovrebbe pensare a chi ha sofferto con me e accanto a me: mia madre, mia moglie, mio figlio». Sull’assoluzione dell’ex ministro al procedimento stralciato dallo “Stato mafia” si conoscono, da lunedì scorso, le motivazioni. Il gup di Palermo Marina Petruzzella fa a pezzi non solo le ipotesi d’accusa contro Mannino ma gran parte dell’impianto dello stesso filone principale. Ventitré anni di indagini e teoremi che sembrano tutti destinati a evaporare nel nulla. «Un danno per l’Italia: la conseguenza più spaventosa di questi ripetuti errori giudiziari», dice Mannino, «è nella cattiva immagine che si è consolidata del nostro Paese. All’estero, negli ambienti più qualificati, sono messe sullo stesso piano, tra le cause della nostra debolezza, la criminalità e l’amministrazione della giustizia».
Questi errori come si spiegano?
“Un pezzo di magistratura inquirente, in una continuità che va da Caselli al recente passato, si è attestato su una traccia tematica, diciamo così, puramente fantastica. E si è privata così della possibilità di leggere i fatti per quelli che erano”.
Quali erano i fatti?
“Le stragi sono la reazione violenta di Cosa nostra alla propria sconfitta, cioè alla sentenza del maxiprocesso. Questa reazione ha avuto una proiezione politica: all’odio per i magistrati artefici di quel processo si è aggiunto l’odio per quei politici della Dc che si erano impegnati contro la mafia. E questo impegno è nei fatti”.
Parla dell’impegno suo personale?
“Parlo del via libera della Democrazia cristiana alle conclusioni dell’Antimafia da cui vennero il 416 bis e il sequestro dei patrimoni. Parlo delle modifiche ordinamentali che portarono poi alle misure del governo Andreotti predisposte dall’allora direttore degli Affari penali Giovanni Falcone. E più indietro nel tempo, parlo del congresso di Agrigento con cui la Dc nell’83 escluse Vito Ciancimino. Dietro quella scelta ci furono la mia iniziativa e responsabilità personali. Devo continuare?”
Se ritiene.
“Il maxiprocesso è stato sostenuto da una linea della Dc siciliana che era guidata da me. E tutti i punti ricordati messi insieme, compresa la nomina stessa di Falcone al ministero, hanno creato le condizioni affinché, con la sentenza del maxiprocesso, Cosa nostra uscisse sconfitta”.
Alla Procura di Palermo seguire questo tipo di ricostruzione storica è sembrato poco affascinante?
“Prima di risponderle faccio una premessa: il rebus di questa storia è nell’arrivo a Palermo di Caselli, il quale trova un gruppo di magistrati a lui politicamente affini e che avevano già imbastito il processo Andreotti, oltre a iscrivere il sottoscritto nel registro degli indagati. Nel febbraio del ’95 io sono arrestato per le dichiarazioni di Gioacchino Pennino, noto personaggio del gruppo Ciancimino. Già da un paio d’anni Ciancimino era in linea di comunicazione con Caselli e il suo aggiunto Ingroia. I due magistrati si lasciano trascinare dalla ‘disinformatia’ di Ciancimino anziché indagare davvero sulle stragi”.
Perché si cede alla tentazione di credere nel complotto?
“Il cedimento viene anche da una debolezza intellettuale. Si subisce una suggestione soltanto quando non si possiede un intelletto forte, che sappia discernere gli elementi concreti e dalle semplici fantasie di natura complottarda. Ma qui la responsabilità non è solo di alcuni magistrati della Procura”.
E di chi altri?
“Del circolo mediatico e di segmenti politici in cui si segnalano due nomi: Luciano Violante e Giuseppe Lumia. Il primo porta Buscetta in Antimafia prima ancora che Andreotti riceva l’avviso di garanzia, il secondo esercita un ruolo decisivo nel costruire la fantasia della cosiddetta trattativa, basta guardare gli atti della commissione presieduta da Pisanu per verificarlo”.
Ma tutta quella che lei chiama fantasia sta per produrre il fallimento anche del processo Stato-mafia principale?
“Il presidente di quella Corte ha materia sufficiente per pervenire a un giudizio, diciamo, parallelo alla sentenza che mi riguarda”.
Tra il ’92 di Mani pulite e il ’95 del suo arresto si consolida l’idea che i politici mentono e i magistrati svelano la verità: la suggestione di cui parliamo è ispirata da quell’idea?
“Senza dubbio chi ha la frusta in mano dà ai fatti l’indirizzo che vuole. Ma le cose, compresa l’improvvisa scoperta della corruzione da parte della Procura di Milano, non avvengono mai per caso. C’entrano eccome la caduta del Muro di Berlino e la conseguente esigenza di una svolta nell’assetto anche economico dell’Italia. Si pensi alla dispersine del patrimonio di imprese pubbliche avvenuto in quel periodo”.
L’errore sullo Stato-mafia, dovuto secondo lei a debolezza intellettuale, è stato dunque un danno per l’Italia prima che per singole persone come lei.
“Lo è stato anche per la lotta alla mafia. Tutta questa vicenda ha impedito di condurla con quell’unità politica che invece era stata preservata nella lotta al terrorismo. Non a caso Falcone dichiarò più volte che si aspettava dalla politica un appoggio convergente e unitario. Con la sua intelligenza aveva intuito che la rottura tra le forze politiche avrebbe fatto passare la linea dell’intrigo. Oggi forse ci sono gli elementi per riflettere con serietà su quanto avvenuto. E va dato onore ai magistrati giudicanti che sono rimasti fermi sul concreto rispetto delle regole”.
Si è fatto una ragione di quello che ha passato, onorevole Mannino?
“Mi verrebbe da dire che, per paradosso, pago proprio il fatto di essermi battuto contro la mafia. Ma il senso è nell’assurdità tragica della vita. Dio mi ha dato la forza e probabilmente dovrà darmene ancora, visto che i pm hanno annunciato di volersi appellare quando la lettura del dispositivo era praticamente ancora in corso”.
Magari assoluzioni come la sua ci faranno rinsavire dal delirio giustizialista.
“Può darsi. Certo la deriva giustizialista è come le onde del sisma: sembra non volersi fermare”.