Mafia operazione Pionica, sei condanne. A Crimi e Gucciardi le pene più severe
MARSALA. Oltre 57 anni di carcere inflitti, sei condanne e due assoluzioni. E’ la sentenza, di ieri, del Tribunale di Marsala (presidente del collegio Alessandra Camassa) che chiude, in primo grado, il frutto delle indagini dell’operazione antimafia Pionica conclusasi il 12 marzo del 2018.
Condanna a 19 anni di reclusione (più 4 di libertà vigilata dopo la scarcerazione) per Salvatore Crimi, (di anni 62 anni), presunto capomafia di Vita. A 18 anni e 4 mesi di carcere, in continuazione con una precedente condanna ormai definitiva (14 anni e 4 mesi nell’ambito del processo Ermes ai cosiddetti «postini» di Messina Denaro), sono stati inflitti a Michele Gucciardi, (di 67 anni anni), presunto capomafia di Salemi.
Gli altri imputati condannati sono: 10 anni di carcere a Gaspare Salvatore Gucciardi, (di 58 anni), di Vita , 8 anni a Ciro Gino Ficarotta, ( di 68 anni), di San Giuseppe Jato , ! anno a 4 mesi ciascuno (pena sospesa) a Crocetta Anna Maria Asaro, di 49 anni, e Leonardo «Nanà» Crimi, di 26, moglie e figlio di Salvatore Crimi, entrambi a piede libero e accusati di intestazione fittizia di beni. Sono stati assolti, Leonardo Ficarotta (figlio di Ciro Gino) e Paolo Vivirito, rispettivamente di 39 e 41, entrambi di San Giuseppe Jato.
I pm della Dda Giacomo Brandini e Gianluca De Leo avevano invocato la condanna di tutti gli imputati, chiedendo oltre 83 anni di carcere.
L’operazione Pionica prende il nome da una contrada di Santa Ninfa dove c’è un’azienda di 60 ettari appartenuta a Giuseppa Salvo, ex moglie di Antonio Salvo, nipote dei noti esattori coinvolti in inchieste di mafia. Per l’accusa, Michele Gucciardi e il 61enne agronomo vitese Melchiorre Leone, condannato in abbreviato a 9 anni e 4 mesi, avrebbero prima scoraggiato i possibili acquirenti dell’azienda e poi, dopo che l’alcamese Roberto Nicastri, fratello del «re dell’eolico», dopo averla comprata all’asta per 130 mila euro per rivenderla per 530 mila euro alla «Vieffe» dei palermitani Vivirito e Ficarotta, preteso per questi ultimi i diritti di reimpianto dei vigneti.
I cosiddetti «catastini», che la Salvo, parte civile nel processo, con l’assistenza dell’avvocato Valentina Favata, sostiene che avrebbe potuto vendere e con il ricavato pagare i debiti dell’azienda e mantenere la proprietà dei terreni. Proprio grazie a quei «catastini» la «Vieffe» ottenne due finanziamenti comunitari: uno di 420 mila e l’altro di 120 mila euro. Oltre a Giuseppa Salvo e al Comune di Salemi, si erano costituiti parte civile anche l’associazione Codici (assistita dall’avvocato Giovanni Crimi), l’Antiracket Trapani (avvocato Giuseppe Novara), l’Ant iracket Alcamese (avvocato Bambina), il Centro Pio La Torre, la «Verità Vive» (avvocato Peppe Gandolfo), e il Comune di Castelvetrano.
Tra i legali degli imputati, invece, gli avvocati Giuseppe De Luca, Giuseppe e Gaspare Benenati e Vito Galluffo. Nel corso della requisitoria, il pm De Leo affermò: «Antonio Salvo rischiò la vita quando prestò 500 milioni di lire a Giovanni Brusca. I vertici di Cosa nostra trapanese, infatti, non gradirono e si tenne anche un vertice per decidere l’eventuale soppressione, che non avvenne perché Salvo si impegnò con loro a finanziare l’acquisto di sostanze stupefacenti». In passato, Antonio Salvo è stato processato per mafia, ma è stato assolto. Per gli inquirenti è il grande sconfitto nelle vicende che lo hanno visto protagonista.