MAFIA, LE CONFESSIONI SHOCK DI GIOACCHINO LA BARBERA, IL BOSS CHE MISE IL TRITOLO A CAPACI
Parole shock di Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci, ex uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento. Racconta di quel pomeriggio del 23 maggio 1992 e lo fa in un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica .
“Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar Johnnie Walker… Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari… Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera… amuninni a mangiari ‘na pizza”.
La Barbera un misterioso uomo sui 45 anni “che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri… Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato”.
Il collaboratore parla di Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, che si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del ’93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma.
“Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene… Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l’unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all’Asinara”.
Sugli omicidi di Lima e Mattarella, il pentito dice che dietro non c’era solo la mafia. “Su Lima vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C’erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino. L’omicidio Mattarella? “Per quel che ne so io, fu voluto da politici”. Il discorso finale scivola sull’arresto di Totò Riina. “Riina non era un capo – dice La Barbera -. Era il capo di Cosa Nostra… Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l’estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L’auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti”.