“L’Albero di limoni” di Bia Cusumano
Nel nostro spazio domenicale dedicato alla lettura con la rubrica “Il vizio delle parole” a cura di Bia Cusumano, oggi ospita il racconto “L’Albero dei limoni”. Buona lettura
Bussarono.
Mi ero chiusa in quello che chiamavo il mio studio, in realtà lo studio di mio padre quando era ancora al lavoro. Riuscivo solo lì a trovare la giusta dimensione e il giusto raccoglimento per fare sfumare il mondo a poco a poco e trovare una ad una le parole. Sembravano conchiglie, le parole, trovate sulla sabbia della mia amata costa. Le annodavo a un filo invisibile e poi d’un tratto tutto si componeva in perfetto equilibrio. Le parole prendevano vita sul PC e rileggendo capivo che il miracolo si era compiuto ancora.
Bussarono ma nel silenzio della notte non poteva essere nessuno. Mio padre dormiva e gli avevo detto che sarei andata via appena avrei finito. Mi aveva guardato perplesso: “Ma è tardi, ancora devi scrivere?” “Perché, aggiunsi, c’è una determinata ora per scrivere?… Spengo tutto tranquillo, chiudo tutto, ho le chiavi. A domani”. Mi guardò come i padri guardano le figlie che vivono immerse nelle parole, così intime da non potere essere amate e troppo in là per potere essere pienamente comprese. Ma l’Amore poco ha a che fare con quel tipo di comprensione razionale e logica. Quella che si spiega con le buone ragioni. Mi aveva visto crescere tra poesie, racconti, presentazioni, articoli, mi aveva ascoltato fin da quando tornavo a casa con la brutta copia dei temi di italiano tra le mani, quando ancora si facevano i temi e la scuola era scuola. E mi diceva dopo pranzo: “Ora leggi che ti ascolto”. E si fermava il tempo. Si beava ad ascoltarmi e così trascorrevano gli anni prima che altri tormenti lo affliggessero. Ma la Bellezza si miscela sempre al Dolore. Bussarono. Non volli alzarmi perché pensavo fosse lui con l’ultima raccomandazione da padre ansioso. Ma un odore di limoni appena colti mi fece sobbalzare dal PC. “Ti siamo venuti a trovare, figghia bedda. Come ti sei fatta grande, una donna sei!”. Le lacrime rigarono in silenzio il mio viso. Non ebbi alcuna paura. Erano i miei nonni. Entrarono con i limoni freschi. Nonno Marco li aveva appena raccolti. Nonna Giovanna aveva le sue solite collane al collo, il suo immancabile foulard, i capelli acconci con le mollette, un velo sottile di trucco, il profumo di sempre, il mezzo tacco perché lei era alta, il nonno un po’ meno. Ma dietro c’era anche nonno Vito, il mio più grande lettore insieme a nonna Giovanna. “Ma veramente per i limoni siete venuti?” “E tu sempre scrivi? Ti lassamu accussì, chi scrivivi e sono passati quanti? venti anni e scrivi ancora?”. “Ma non so vivere senza parole. Per me scrivere è vivere. Sedetevi, nello studio di papà per fortuna ci sono le sedie per tutti.
“Sì, vìnnimu per i limoni. Per ricordarti a chi appartieni. Te lo ricordi l’albero che abbiamo piantato quando eri na picciridda?” Certo, nonno, lo hai piantato tu con le tue mani e infatti papà, quando ha ereditato questa casa, ha restaurato e ricostruito tutto ma non ha toccato di un centimetro l’albero di limoni. Dice che rappresenta l’amore che gli avete dato tu e nonna Giovanna e che l’albero, qualsiasi cosa accada, non si tocca. Quando un po’ si intristisce, pensando che il tempo passa per tutti, mi dice: “Vedi quell’albero di limoni, te ne devi prendere cura. In una casa sempre servono i limoni freschi e questi sono quelli di mio padre”. Glielo ho promesso. “E le promesse si mantengono, figghia bedda”, disse mia nonna. Vi abbraccerei, mi siete mancati tanto. Ho scritto così tante cose in questi venti anni. Ma come mai mi avete fatto questa sorpresa, stanotte? Senza voi mi sono sentita così sola. Mi sono mancati i biscotti impastati fino all’alba e l’olio fresco appena molito, i gerani della nonna e i crisantemi raccolti a novembre. Tutte le volte che tornavo da scuola e vi leggevo i temi o quando uscivo dalla mia stanza con l’ultimo racconto e il nonno mi diceva, ora mi siedo che tanto lo so che hai scritto. Mi sono mancate le vostre parole di incoraggiamento per andare avanti, tra studi, concorsi, gavette, delusioni e per non arrendermi mai. Mi sono mancati i vostri sguardi e la dolcezza del vostro amore che è stato casa senza giudizio e senza colpa. Non voglio che ve ne andiate. Ho dovuto fare tutto da me ma forse mi avete amato così tanto che non c’è molecola del mio corpo che non porti impressa il vostro amore.
“Sappiamo che hai la malattia ai muscoli, quella stessa della zia, sappiamo che soffri tanto ma il dolore non si vede e non ti hanno mai creduta. Ti hanno lasciato sola, figghia bedda”, disse nonna Giovanna, quella che parlava sempre, un po’ come me (o forse ero io che parlavo tanto come lei). Che importava! Erano venuti i miei amati nonni, nell’anno dei tradimenti, così lo ricorderò per sempre. Erano venuti con i limoni per ricordarmi che l’amore non muore e che fa ciavuru pure se non si vede. Si espande, avvolge, protegge, custodisce e non ha bisogno di titoli, lauree, specializzazioni. Forse in tre i mei nonni arrivavano alla terza media, forse anche meno. Ma quella notte erano lì. I limoni in mano per ricordarmi chi ero, perché scrivevo, che senso avesse soffrire e creare bellezza attraverso le parole.
“Non ti fermare di scrivere, figghia bedda, disse nonna”; al solito forte e altera come le donne di altri tempi. “Chi si’ bedda in questo studio fra i libri di tuo padre. Sono felice quando ti so in questa casa. Voglio che ci vieni ad abitare presto e che scrivi le tue poesie sotto l’albero di limoni, poi le leggi e io le ascolto. Sei preoccupata, figghia bedda? Ci vuole tempo per comporre i pezzi, non preoccuparti. Noi non ti lasciamo e, lo sai?, ogni volta che hai subito un torto, noi ti abbiamo difeso. Siamo la tua famiglia, quella fatta no di sangue ma d’Amore”. Mio nonno Vito si guardava intorno, eravamo a casa paterna. “Nonno, tu non eri mai venuto qui, ti piace?”, dissi. “ Sì; c’è la campagna e il silenzio. Buono è come posto per te e poi ci sono le scuole vicino e lo so che insegni dove volevi insegnare. Te lo avevo detto che saresti stata una brava professoressa. Sono orgoglioso del tuo ultimo libro, so che lo hai pubblicato, sono orgoglioso ogni volta che scrivi perché io ti ascolto sempre”. Nonno mio, dolce come il miele dei biscotti ripieni, quelli che faceva la nonna, l’unica ancora in vita su questa terra. Grazie per i limoni, per questo odore buono che mi è rimasto addosso, grazie per tutto l’amore che mi porto dentro. Grazie per avermi fatto sentire una nipote preziosa. Grazie per questa sorpresa notturna. Grazie per avermi ricordato da dove vengo e a chi veramente appartengo. I limoni lasciateli lì, domani a papà dirò che li ho raccolti io.
Domani sarà già lontano questo sogno, immersa io nelle tradizioni di cui mi avete nutrito ma che non scordo. Un viaggio nel tempo della mia infanzia e adolescenza, nella mia Sicilia di scirocco e mare, troppo bella per essere lasciata. Mi avete saputo amare così tanto che pure vivessi altri mille anni senza amore ancora ne potrei dare e ancora ne potrei scrivere. Siete stati i nonni migliori che una nipote può desiderare di avere. Mi avete insegnato la bellezza, l’appartenenza, l’amore che profuma eppure non si vede e non si spiega e mi avete donato la poesia delle cose semplici ed essenziali. Quelle che nessuno potrà portarmi mai via. “Amunì è tardi”. “Jitivinni”, sarò forte, ve lo prometto. I limoni, però lasciateli qua che stanotte me li metto in mezzo al letto.
Poi vallo a spiegare a papà che in questo studio succedono sempre cosi strammi.