La dottoressa dalla voce di seta
SCIACCA. Pubblichiamo volentieri un bellissimo ricordo della poetessa e docente Bia Cusumano dedicato alla cugina Maria Accardi, medico dell’unità operativa di Radiologia dell’ospedale “Giovanni Paolo II” di Sciacca, recentemente e prematuramente scomparsa. Un ricordo commovente ma anche esaltante nell’esaltare le grandi qualità umane e professionali di Maria.
“Della mia malattia ancora si sapeva poco o nulla. Io e i miei genitori brancolavamo nel buio di mille domande senza risposta e di tanto dolore infitto nelle fibre della mia anima e del mio corpo. Ricordo i loro amarissimi silenzi davanti ad una figlia ammalata ma al cui male non c’era un nome, una cura, una soluzione, se non controlli su controlli, esami su esami, ricoveri su ricoveri.
Dalla Sicilia fino a Milano e poi di nuovo giù in una giravolta infernale, di code lunghissime ed estenuanti, sale d’attesa senza mai varcare la porta giusta. Bucata ovunque, aghi dappertutto, flebo e svenimenti, letto e lenzuola fresche di bucato come consolazione all’ennesimo rientro dopo ricoveri e colloqui sfibranti con luminari senza la parola definitiva. “Sua figlia ha…” Non si sapeva. Si è saputo dopo 26 anni di calvario. Erano tutte ansie, paure, stress, febbricola tensiva, emicrania da eccesso di studio. Deve riposare di più, mangiare di più, stare sui libri di meno. E il dolore divorava le fibre dei muscoli e delle ossa. Poi la tua laurea in medicina, mentre girovagavo per l’Italia. Poi la tua specializzazione in radiologia. Nessuno poteva prevedere allora, cugina.
Quando entrai per la prima volta in quel tunnel bianco che sembrava un sarcofago dell’antico Egitto, io claustrofobica e che già da tempo soffrivo di attacchi di panico, tremai. Tu mi guardasti con il tuo sorriso placido. “Ci devi stare mezz’ora lì dentro. E più ferma e immobile ci stai, prima ti faccio uscire. Non devi avere paura, sentirai freddo ma io ti copro con la coperta più pesante che ho in reparto. La temperatura lì dentro deve essere bassa.” “Mezz’ora… ma tu sai quanto sia lunga mezz’ora?… Non lo so se ce la faccio” ti dissi. E tu, con il sorriso luminoso di una dottoressa esperta del suo mestiere e con la dolcezza di chi non ha perso mai il cuore profondo e sensibile mi dicesti: “Io ti parlo, mentre sei lì dentro, tu ascolta la mia voce e non avere paura. Andrà tutto bene.” Fu la mezz’ora più strana della mia vita, la prima di tante altre mezz’ore in cui vi era sempre la tua voce di seta a farmi compagnia.
Tante risonanze magnetiche per guardare dentro il mio encefalo, scrutare dentro il mio rachide, comprendere la verità di quei sintomi strazianti: le vertigini, i tremori, gli svenimenti, gli sbandamenti, la mancanza di equilibrio. Ed eri sempre tu, cugina ad accogliermi oltre quel vetro che separava i pazienti dalla stanza di attesa. Mi accompagnavi a svestirmi, a togliermi le lentine, gli orecchini, gli oggetti di metallo, perché le immagini devono essere nitide. “Perché io devo vedere bene” mi dicevi ogni volta. E quando venni per l’ultima risonanza, ti guardai trasformata e tumefatta dal male oscuro che ti ha portato via. Eppure tu che convivevi con un tumore dentro le viscere, hai guardato bene dentro il mio straziato collo. “C’è una lama, ti dissi, conficcata dentro. Questa volta è diverso Miriam. La malattia è peggiorata, tu mi credi, vero?” Sì tu mi credevi. Tu che conoscevi il dolore di morire ogni giorno in vita, ma con il camice addosso, dentro il tuo reparto di radiologia. Lì tra i tuoi pazienti che amavi e il tuo mestiere di dottoressa che hai onorato fino alla fine. Mi credevi, infatti mi hai tenuta di più e con la tua voce di seta mentre sullo schermo bloccavi le immagini del mio collo pieno di protrusioni ed ernie, mi dicesti: “ Sì, hai ragione ma vuoi arrenderti? Il dolore fa parte della vita, devi accettarlo. Ho visto cosa hai ma resisti, nessuna operazione. Il corpo a poco a poco prosciugherà questo frammento espulso, questa scheggia fuoriuscita che ora è la tua lama. Abbi una pazienza infinita e la forza di chi sa aspettare ma non molla. Non lo raccontare il dolore che provi adesso, tanto nessuno può capirlo. Lo sai, non tornerai più come prima. Ma nel tempo a poco a poco tornerai a fare ciò che ami, te lo prometto. Tornerai a scrivere”.
Mi dicesti una verità atroce in quel momento per me. Forse quella che nemmeno i dottori dicono così duramente ma i cugini sì, lo possono fare. Sei stata vera, autentica e senza mezze misure. Mi consegnasti il referto con la consapevolezza che avrei passato l’inferno ma sarei tornata almeno a vivere un po’, giusto per non scordarsi come si fa. Tu sapevi che per te sarebbe stato diverso. Ti attendevano pochi anni, poi pochi mesi, poche settimane, poi poche ore e minuti fino alla fine da cui non si torna più. Un male che si chiama tumore e che tu da medico radiologo hai diagnosticato con tempestività assoluta a tanti, davvero tanti pazienti, salvandoli, non ha avuto pietà di te e ti ha portato via. E sei andata in quell’Altrove in cui continui a ricordarmi che il dolore fa parte della vita e che no, non ci si può arrendere. Ho attraversato l’inferno per potere questa sera permettermi di stare seduta al pc a raccontare la nostra storia.
Due cugine che sono state unite dal filo invisibile di due patologie che non hanno un perché ma la mia mi permette ancora di essere voce anche per te. Ti dono le mie parole, come tu dentro quel tunnel bianco mi hai donato le tue. Ti dono il mio amore per il mestiere che non salva vite umane, come facevi tu, ma accarezza e lenisce altri dolori. Ti dono la mia forza di guerriera silenziosa, la stessa che avevi tu. Ti dono il mio amore per la vita e ti prometto che la difenderò come hai fatto tu, fino alla fine, lasciando segni di amore lungo questo cammino, a volte ingiusto ed ingrato. Ho saputo del tuo testamento biologico.
Ho saputo di tutto l’amore che hai saputo donare ai tuoi colleghi, al tuo reparto, ai tuoi pazienti, ai tuoi amici. Tu che non avevi figli e che avevi scelto la Scienza come madre. Ed io che ho scelto la Poesia, racconto della tua voce di seta, racconto di quanto l’amore vinca perfino sulla morte se in una notte freddissima dell’anno, dopo un anno e mezzo in cui sono stata una larva e nessuno ha compreso il mio inferno se non tu che lo hai visto e lo hai inciso dentro le lastre che mi hai consegnato, sono qui a scrivere di te. Della tua voce di seta che mi ha accompagnato dentro quel tunnel e che ho stretto a me come si fa con un filo per uscire fuori da un labirinto.
Miriam, sei stata una dolcissima cugina, una grande dottoressa, una eccellente professionista, un esempio di forza, tenacia, sacrificio, abnegazione, appartenenza assoluta a ciò che si ama. Non potevo non dedicarti il mio grazie. Mi hai visto crescere, mi hai tenuto sulle tue ginocchia. Andavi già al liceo ed io ero una piccola bimba dai capelli rossi e tante infinite parole. Tu hai sempre parlato poco ma hai sempre detto la verità. Resta dentro le mie fibre, dottoressa dalla voce di seta. Hanno piantato un albero presso il tuo ospedale, ogni primavera e per ogni risonanza che dovrò fare, quando varcherò quella soglia, sentirò ancora la tua voce, io lo so. Mi continuerai a dire. “Non avere paura, andrà tuto bene. Dentro il tunnel tu ascolta la mia voce”.