“Il vizio delle parole”, il racconto della domenica

La Poltrona Rossa

di Bia Cusumano

Alla dott.ssa P.

Quando vidi Gemma per la prima volta era come una foglia secca d’inverno accartocciata su se stessa. Tutta vestita di nero. Una vedova in lutto mi sembrò. Entrò nella mia stanza in fondo al corridoio e si sedette con eleganza e un po’ di imbarazzo. Ci guardammo come due perfette sconosciute, dottoressa e paziente che da quel momento in poi avrebbero intrapreso un lungo viaggio insieme. Almeno speravo che quella giovane donna potesse permetterselo di compiere un lungo viaggio insieme a me.

Nel nostro primo incontro le chiesi: “Gemma, lei cosa si aspetta da questo percorso che ha scelto di intraprendere?”. E lei, sicura anche se provata forse dalla fatica dei tanti chilometri fatti per giungere da me, disse: “Di tornare a vivere, dottoressa, perché il dolore che sento è così forte che o vive lui e io muoio o vivo io e muore lui”. Sempre così radicale, Gemma, sempre forte e decisa, nonostante tutto e tutti. Una donna coraggiosa. Nei ventotto anni nei quali avevo svolto la mia professione di psicoterapeuta ne avevo incontrati davvero tanti di pazienti e di volti, nomi, storie era piena la mia vita, la mia stanza e la mia memoria. Avevo scelto di fare proprio quel mestiere e non un altro per non uccidere nessun dolore nella vita mia né in quella altrui e per permettere a me stessa e ai miei pazienti di convivere con i dolori più grandi al mondo dentro l’anima. E, nonostante il dolore, potere costruire, amare, avere sogni, passioni, desideri, un lavoro, una famiglia, dei figli. Capire, sì, che ognuno ha il suo passo e la sua misura per stare bene e che non esistono ricette preconfezionate per essere felici. Come non esiste la possibilità di rinnegare e uccidere il dolore nella vita di ogni giorno. L’unica possibilità è imparare a camminare nonostante esso, magari farselo anche un po’ amico, accoglierlo, ascoltarlo e vedere dove vuole condurci.

Era una scommessa, Gemma, già nel nome; era destinata a fiorire e rifiorire ancora. Ma senza scissioni, senza nessuno aut aut! O vivo io e muore il mio dolore o il contrario. Se avesse imparato ad abbracciarlo il suo dolore si sarebbe salvata e sarebbe tornata Gemma, tutta intera, non a pezzi scomposti. Una scommessa che durò ben otto anni! Un viaggio insieme a lei negli abissi della sua anima e della sua estrema sensibilità.

Gemma veniva da lontano. Ammiravo segretamente la sua tenacia. O con la pioggia sferzante o con il sole cocente di Sicilia, fino a luglio inoltrato, lei era lì. Arrivava, entrando con gli occhi che diventavano di volta in volta sempre più grandi e rilucenti, negli ultimi tempi magnetici direi, e prima di cominciare a parlare, raccontandomi di lei, della sua famiglia, dei suoi amori inconcludenti, del suo lavoro che amava visceralmente, si dirigeva verso la poltrona rossa, si adagiava con grazia sopra di essa e mi diceva: “Ecco, ora sono a casa, finalmente sono seduta su questa poltrona, mi faccia godere questi pochi attimi, li ho aspettati per una settimana intera”. Socchiudeva appena gli occhi, poggiava le braccia e le mani bianche sui braccioli della poltrona, accavallava le gambe snelle e soggiungeva: “Sì, adesso possiamo cominciare, dottoressa”.

Gemma aveva una storia complicata alle spalle ma una forza di volontà e un amore per la vita e la bellezza che davvero in poche donne ho trovato. È stata una di quelle pazienti che ti resta un po’ dentro e che ti porti appresso negli anni, nel cuore e nella mente, perché alla fine del nostro viaggio, da foglia accartocciata e arida, Gemma è tornata a rifiorire pur non avendo ucciso nessun dolore dentro sé. Perché nel lungo nostro percorso era riuscita ad amarsi, a vedersi bella nelle sue imperfezioni, a fare pace con tutto l’amore mancato e non ricevuto, a far combaciare i pezzi nella consapevolezza che sarebbero sempre stati appesi a un filo da equilibrista. Aveva compreso che non doveva scegliere fra le sue parti. Poteva essere donna, compagna, docente, figlia, nipote, amica, scrittrice, ammalata finanche ma tutto insieme, senza operare selezioni. Poteva essere piena di vita e donarsi agli altri così come era nella sua diversità, che non era colpa o vergogna.

Negli anni, Gemma divenne sempre più sicura, determinata e consapevole. Era una donna di grande classe. Quando arrivava nella mia stanza portava sempre con sé quel suo profumo di gelsomino notturno, i suoi orecchini luccicanti, i suoi tanti anelli alle dita e tirava fuori dalla borsa, due cose che adagiava sopra il tavolinetto di cristallo: una bottiglietta d’acqua e un libro di poesie. Poi mi guardava intensamente e mi diceva: “L’ho comprato adesso, alla bancarella qui sotto all’angolo della strada. È il mio rito. Così nelle ore che mi serviranno per tornare a casa in treno, ascolterò musica classica e leggerò poesie. Lo ha detto Lei che le parole sono come le medicine, guariscono i cuori. Io amo la poesia! Pensi che mi sono laureata con una tesi proprio su un grande poeta contemporaneo. Forse le nostre professioni non sono poi così distanti, dottoressa. Ci ho pensato in queste settimane. Se Lei non credesse nel potere di cura che hanno le parole e l’ascolto, non potrebbe fare questo mestiere; ma nemmeno io potrei fare il mio. Penso davvero che se non avessi fatto la docente avrei fatto la psicoterapeuta. Mi appassiona il potere miracoloso delle parole: piccole creature alate che guariscono l’anima se pronunciate con amore e dolcezza o che feriscono a morte se sparate come proiettili. Siamo fatti di “parole”.

Gemma era una docente appassionata e possedeva la grande capacità di scendere negli abissi dell’animo umano; ma farlo da scrittrice era cosa ben diversa che da psicoterapeuta. Certo, aveva ragione, avrebbe potuto farlo il mio mestiere e sarebbe stata sicuramente brava, perché empatica, predisposta all’introspezione, fiduciosa che le parole potessero guarire, innamorata dell’umanità (come diceva sempre lei), ma io ribattevo che era un bene che facesse la docente. Il suo lavoro lo aveva scelto e desiderato ardentemente, vincendo i pregiudizi che una donna con una patologia addosso potesse essere anche una brava docente, anzi lei era riuscita a portare in classe tutto l’amore per la vita e la letteratura nonostante il suo dolore e, forse proprio grazie a questa esperienza così traumatica, era riuscita a convivere con una patologia invisibile agli occhi ma che la costringeva spesso a letto. La sua malattia fiaccava molto la sua irrefrenabile voglia di vivere e la umiliava, la piagava nella sua estrema sensibilità proprio per il fatto di non essere creduta.

“Pensi, dottoressa, – un giorno mi disse – il mio fidanzato una volta mi ha costretto a fare un viaggio in macchina con l’aria condizionata sparata a palla, e lei sa quanto io soffra il freddo e purtroppo non regga l’aria condizionata a causa della mia “ladra di vita”. Ladra di vita, così Gemma chiamava la sua patologia. “Perché – aggiunse – se quando io presento gli spettacoli sui vari palchi riesco a sopportare il freddo, il vento e l’umido”; e invece poi in macchina gli impedisco di tenere l’aria condizionata accesa, questa mia patologia è tutta a convenienza perché non è affatto possibile sia a giorni alterni, uno sì e uno no. E così mi sarei dovuta fare il viaggio con l’aria condizionata a palla e sopportare in silenzio, come ero disposta a sopportare tutto il resto (freddo, vento, umido, tacchi e fatica) solo se le cose mi piaceva farle. Quella confessione di Gemma mi raggelò, pensai che se non le credeva nemmeno il fidanzato, che diceva di amarla perdutamente e che in maniera sadica le aveva imposto quella punizione, dimostrando chiaramente di non credere affatto alla sua patologia, figuriamoci il resto del mondo! Figuriamoci i familiari, i parenti, gli amici, i colleghi. E poi la patologia di Gemma strideva troppo con la sua esuberanza e la sua vivacità, con la sua cura della persona, con la sua voglia di fare tante cose fino a volte a ridursi allo stremo delle forze pur di esorcizzare quel suo dolore che invece era costante, invalidante e senza alcun protocollo di cura. Malattia subdola e invisibile che si annidava nelle fibre, senza farsi notare da nessuno perché tutti, invece, in Gemma notavano ben altro. Il viso ben truccato, il rossetto rosso, i brillantini, le calze con i lurex, le scollature e le minigonne. Lei, con quel suo corpicino da ragazzina che poteva permettersi tutto. Lei bella nonostante e oltre il suo calvario. Come crederle? E per anni interi il suo tormento più grande fu proprio quello: farsi credere! Perché lei non mentiva, soffriva davvero, prendeva farmaci sul serio, era tanto stanca sul serio, non dormiva la notte e ogni risveglio era traumatico per le vertigini e i tremori, per le contratture e le nevriti o le ernie che negli anni si susseguirono quasi a rincorrersi per costellare la sua esile colonna vertebrale. Farsi credere, essere “vista”, riconosciuta, amata nonostante i suoi limiti, le sue difficoltà, le sue lacrime silenziose, le sue ferite invisibili. Perché Gemma al mondo non avrebbe mai concesso di farsi vedere pallida, emaciata, preda di vertigini e tremori, sciatta e poco curata. Gemma al mondo avrebbe dato solo i suoi sorrisi, il suo carisma, la sua dialettica forbita, la sua classe, i suoi occhioni profondi che parevano parlare. Gemma avrebbe dato solo il meglio di sé. Il mondo l’avrebbe vista solo splendere! No, il suo dolore non lo avrebbe dato in pasto a nessuno e mai avrebbe permesso di suscitare negli altri pena o avere la compassione dei parenti, degli amici, dei colleghi e del fidanzato. Troppo orgogliosa, pudica e quasi gelosa della sua ladra di vita. E quando non avrebbe potuto splendere si sarebbe rintanata a casa, chiusa a chiave, tra musica e libri, nel suo lettone. Avrebbe aspettato con forza e tenacia che il dolore le desse un po’ di tregua, che le permettesse di scendere le scale, di sedersi per mangiare qualcosa, fare una doccia, asciugarsi i capelli, truccarsi, uscire e fare una breve passeggiata.

“Perché, poi, le crisi acute passano, dottoressa, – mi diceva – passano. E io riesco con tutta la forza di volontà che ho dentro a fare quello che fanno abitualmente tutte le altre donne: cucinare, fare una lavatrice, andare dall’estetista o dal parrucchiere, indossare abiti eleganti e andare a scuola, senza che gli altri sappiano quanta fatica immensa c’è dietro, quanta forza ci vuole, quanta capacità di sopportazione e pazienza occorrano per “far finta” di stare bene e sorridere, quando invece vorresti solo urlare e dire a tutti che stai male perché senti male ovunque e che non è una invenzione della mente, una ipocondria, una squallida ed egocentrica follia. Non è un privilegio avere il posto di lavoro vicino al proprio domicilio o un mese di malattia in più durante l’ anno di lavoro; non è un privilegio avere il posteggio riservato per l’auto o chi ti viene incontro ogni mattina quando arrivi per aiutarti con i libri e il PC. E che non è giusto soffrire così. Fare tutto e farlo anche bene, forse anche meglio di altri ma farlo con una fatica immensa addosso, con dolori ovunque e costanti e non essere neppure creduta e, anzi, perfino giudicata opportunista, raccomandata, principessina sul pisello e viziata! Inghiottire in silenzio il boccone di fiele e sorridere fingendo che sia normale così”. “Gemma, – le dissi – lei insegna le figure retoriche ai suoi alunni, vero? Sa bene perciò cosa sia un ossimoro! Ecco quando qualcuno non le crede, la giudica, la condanna, la mette alla gogna, si ricordi solo che esiste una meravigliosa figura retorica: l’ossimoro. Il mondo non è abituato a credere a ciò che non tocca con le proprie mani e non vede con i propri occhi e la malattia fa paura, Gemma, tanta paura. Mette a disagio perché ci pone in contatto immediato, inconscio con le nostre parti malate, quelle che proprio vogliamo oscurare, nascondere, non far conoscere a nessuno, occultare finanche a noi stessi. Perché vogliamo essere sani a tutti i costi, belli a tutti i costi, perfetti a tutti i costi.

Il mondo ci pretende così. Sani, belli, performanti, di successo. Ma non è così Gemma; noi tutti siamo fatti di parti sane e parti ferite, luci e ombre, talenti e fragilità, bellezza e paure. Rossetto rosso e botole oscure. Pensi ora all’ossimoro. Lei, Gemma, è un meraviglioso ossimoro. Dal mondo vuole farsi vedere solo quando non trema, non vacilla, non ha il fiato corto, la tachicardia, non perde l’equilibrio, quando non piange per il dolore o urla per la rabbia. E allora come pensa che gli altri possano credere che in lei ci sia così tanto dolore, che in lei si annidi così tanta subdola malattia, che in lei ci siano anni di tormento e cure, ospedali, visite, farmaci, lacrime, umiliazioni, condanne, soprusi? Un ossimoro, Gemma, non è credibile eppure è potente e direi struggente come figura retorica, per la sua capacità di abbracciare gli opposti, di contenere immagini che nella realtà sono perfettamente contrarie, capovolte l’una rispetto all’altra. Eppure se non ci fossero gli ossimori, i poeti non riuscirebbero a far giungere ai propri lettori tutto il fascino e la meraviglia dei propri versi. Se volesse davvero farsi credere dovrebbe essere disposta a farsi vedere così, Gemma, come quando a casa cade, vacilla, sbatte alle porte, piange in silenzio, come quando non ce la fa a farsi una semplice doccia o a tenere un libro in mano. Dovrebbe farsi vedere sciatta, poco curata, senza brillantini e unghie smaltate, senza rossetti e lurex. È disposta a farlo?” Gemma mi guardò con i suoi occhioni verdi, si accarezzò il naso, gesto che faceva sempre quando era assorta nei suoi pensieri, prese fiato e disse: “No!” “E allora resti un ossimoro, un meraviglioso, struggente, potente ossimoro ma non cerchi più disperatamente di essere creduta. La sua Patologia non farà meno male perché lei sarà creduta.

La sua Patologia resta e resterà comunque. Sia che il suo fidanzato la punisca costringendola alla sevizia sadica dell’aria condizionata solo perché non le crede affatto, sia che con cura le dia la sua giacca per coprirsi e quando scende dal palco corra ad abbracciarla per scaldarla. La sua Patologia non ha bisogno di essere creduta dal mondo per essere vera. Faccia pace con l’aspettativa feroce di essere creduta. Ha scelto lei di essere un ossimoro; questo è il prezzo che il mondo vuole che lei paghi. Non è giusto, lo so, ma è così. Non possiamo cambiare gli altri, ma il nostro modo di percepire o vivere le cose che gli altri ci fanno sì. Ecco il suo potere. Ha scelto di essere un ossimoro. Il mondo non le crederà, non la capirà, non le perdonerà mai di splendere nonostante la sua patologia. La condannerà, la punirà, la criticherà, la giudicherà. Ché gli ossimori non sono stati creati per essere creduti ma per evocare suggestioni di bellezza che altrimenti non avremmo nelle pagine dei poeti che lei ama tanto. Nessuno crede in una notte luminosa. Perché ci sono o buio o luce nella realtà verosimile delle cose. Troppo complesso potere accettare e comprendere che sia possibile che una notte buia sia agli occhi di un poeta anche luminosa. Nessuno crede a un ammalato che sembra sano e che riesce anzi a fare più cose di una persona sana e le fa finanche sorridendo.

Ora vada, Gemma, porti impressa nella sua mente questa figura retorica per tutta la vita e si ricordi che lei è unica e preziosa proprio perché ha scelto con tutta se stessa di essere un ossimoro. Porti con eleganza, con fierezza, il suo sorriso luminoso e la sua patologia nel mondo e non si senta più in colpa. Si perdoni per avere scelto di essere un ossimoro. Anzi si senta orgogliosa di questa scelta, così difficile, ardua, faticosa e dolorosa. Si perdoni, Gemma, perché lei è l’ossimoro più bello che io abbia mai incontrato nella mia carriera di psicoterapeuta. Forse sarà poco ma è tutto quello che posso dirle”. “No, dottoressa, non è poco, anzi è tutto. Sì, ricorderò sempre quello che mi ha detto in questi anni e la ringrazio per avermi aiutato con pazienza e fiducia a rifiorire proprio come il nome che porto, una Gemma nel cuore del mio infinito e tormentato inverno.

Adesso una cosa voglio dirgliela io – disse –. A causa della mia patologia, di viaggi io ne ho potuto fare davvero pochi e io invece sono una donna che ama viaggiare. Forse per questo ho deciso di scrivere. Per me scrivere è come viaggiare. Ma se pure fossi potuta andare in Australia o in Giappone, il viaggio più bello che io ho fatto nella mia vita è stato stando seduta su questa poltrona rossa in questa stanza al quarto piano interno 5 di questo palazzo. Arrivederci dottoressa e grazie per avermi condotto negli abissi e sulle vette della mia anima”. “Arrivederci Gemma; si goda la sua passeggiata con l’aria frizzante della primavera che arriva, tra musica classica e il suo ultimo libro di poesie, prima di tornare a casa e grazie per avere tenuto salda la mia mano lungo tutto il viaggio, anche quando è stata dura fidarsi di me, perché la mia mano negli abissi scompariva eppure lei non ha mai dubitato che ci fosse. Ora che ha anche imparato a potersi fidare degli altri, nonostante tutto il male che ha ricevuto, vedrà che si innamorerà sul serio e questa volta sarà senza alcuna sadica aria condizionata accesa!” L’abbracciai. Eravamo giunte ambedue a destinazione. Il nostro viaggio insieme si concludeva lì.

Mai dimenticherò Gemma, come donna e come dottoressa. E quando mi immergo, dopo lunghe giornate di lavoro, dentro versi di poesie che amo e mi imbatto in un ossimoro, sorrido sempre tra me e me, perché io ho avuto il privilegio di conoscerne uno dal vivo. E non è privilegio concesso a tutti.