“Il vizio delle parole”, i racconti della domenica mattina di Bia Cusumano

Livia, bella e libera come farfalla

a Serena

 

“Livia, vieni qui, abbracciami stretta stretta, ché voglio sentire il tuo odore”. Ma, mi chiedo, quanto ancora dovrò costruire?… No, perché sai mi hai preso le mani quell’ultima volta in cui ci siamo incontrate e mi hai detto: “Costruisci, amica mia. Costruisci e abbi pazienza. Ci vuole tempo per costruire!” Sono trascorsi tre anni a giugno e te ne sei andata alla stessa età che oggi ho io e, giuro, non mi sono fermata dal costruire. Neanche un attimo. Non ho quasi respirato perché ho sentito nel cuore e nella pancia che dovevo costruire per due, per me e per te. Con te, la vita è stata davvero ingiusta, molto molto più che con me. Io posso ancora sperare un giorno di abbracciare chi amo, tu non più e questa cosa a volte mi toglie il respiro e corro a cercare le farfalle. Libere e belle come eri tu, amica mia.

Nessuno sa cosa ci siamo dette nel nostro ultimo incontro ma sembravi una profetessa degli Dei dell’Olimpo; ti era tutto chiaro. Vedevi tutto così nitidamente, prossima che eri ormai alla soglia. Non volevo lasciare le tue mani, i tuoi occhi, le tue parole così pacate e calme. Eri in pace. Mi dicesti che prima di andartene da questo posto strano in cui siamo tutti immersi, avevi voluto fare pace con tutti, pure con chi era impensabile fare pace. Che avevi messo tutti i pezzi a posto, che avevi fatto quell’ultima chiamata e avevi riso e scherzato e poi avevi costruito i tuoi puzzle per lasciarli appesi alle pareti e scritto i tuoi ultimi brani. Tutto in ordine, mi dicesti, Lia mia. E d’un tratto non c’era più lo scialle sulle tue gambe rinsecchite dal male oscuro, non c’erano le occhiaie nere e i lividi sulle braccia per tutte quelle maledette flebo, non vi era la poltrona a dondolo in cui trovavi un po’ di tregua ai dolori lancinanti che nemmeno la morfina ti risparmiava, non vi era la bombola di ossigeno con i tubicini al naso, non vi era il foulard sul capo. A un tratto non vi erano più le voci dei tuoi figli giù nel salone e di altre persone che si avvicendavano a casa tua a ritmi frenetici. Il silenzio assoluto e poi come in un volo siderale fummo lì. Pantelleria 2013. Aula docenti, settembre, un caldo da morire. Più Africa che Sicilia, in effetti, è quell’isola, perla nera e vulcanica. Entrasti con la tua solita aria timida, perfino un po’ goffa, ma Dio quanto eri bella!

Capelli lunghi mossi sulle spalle, alta, magra, ben vestita, da vera professoressa. Con un pantalone aderente, una maglia Disegual tutta colorata e i tuoi immancabili tacchi… A parte me seduta al tavolo della stanza non vi era nessuno. Io e te. I nostri occhi si incrociarono in un istante che non potrò scordare mai. Con voce timida e composta mi dicesti: “Scusa, collega, sai quale cassetto posso prendere fra questi per posarci il mio registro? Sono appena arrivata e ancora non so orientarmi in questa scuola”. E io con la mia solita aria sicura e come se ti conoscessi da sempre: “Certo – dissi – ci penso io, lo chiedo al bidello e ti faccio avere subito le chiavi di un cassetto tutto tuo; intanto metti il tuo registro nel mio!”. “Grazie, sei gentile. Anche tu sei nuova? Forse sei arrivata per prima; io qua ancora non so barcamenarmi”. “Nuova, sì, ma di’ pure a me, non ci sono problemi! Io ho una soluzione per ogni cosa!” Che estroversa, impavida, sicura, perfino baldanzosa io! Che riservata, timida, delicata come una farfalla tu!

Negli anni poi la sicurezza, la tempra indomita e ribelle l’hai tirata fuori e mi chiedo se almeno un po’ io ti sia stata da sprone. Ma la testa matta, tra me e te, eri decisamente tu, fattelo dire! Insomma, non ci lasciammo più. Quanti anni sono trascorsi da allora, amica mia? Da quel 2013? A ricordarli ora sembrano una eternità! Ma dovevi pur disobbligarti per la gentilezza del cassetto che ti misi a disposizione, salvo poi scoprire che per un anno intero saremmo state colleghe nella stessa classe: io avrei insegnato Letteratura italiana e latina, tu Sostegno con un bimbo dai capelli rossi, Marco, che si legò a te in una maniera viscerale. Dovevi disobbligarti, perché tu eri fatta così: impastata di gratitudine, gentilezza, dolcezza e timidezza. Così ti avvicinasti a me, dopo che ritornasti in aula docenti con la chiave del cassetto che sarebbe stato tuo per l’anno intero, e mi dicesti: “Posso offrirti un caffè al bar qua sotto, questo pomeriggio, per disobbligarmi? Sei stata davvero gentile. Poi magari ci facciamo due passi insieme e così ci conosciamo un po’. Io mi sento spesso a disagio negli ambienti nuovi e non sono sicura e disinvolta come te”. “Certo, – dissi – il caffè! Decaffeinato, macchiato e con zucchero di canna!” Ridesti e in quel sorriso, penso, nacque il nostro immenso amore di amiche.

Nessun giorno trascorse da allora senza il buongiorno, il che fai, stellinamia, il mi manchi, la buona notte e le lunghe interminabili telefonate fatte di confessioni inverosimili e di me che urlavo come una matta: “Dimmi di no! Che non lo hai fatto”… e tu puntualmente: “Sì, l’ho fatto! A te non posso mentire, sei la mia migliore amica, mia sorella!” Certo, tua sorella! Certe volte ti avrei tirato uno schiaffo! Quante follie fatte insieme, quante lacrime, risate, segreti, caffè-time, come li chiamavi tu e poi cioccolata-time o ancora gossip-time. Sì, avevamo i nostri riti che scandivano le stagioni. D’inverno, il nostro bar preferito dal nome buffo ma che a noi piaceva lo stesso, chi se ne fregava! Cioccolata calda e biscotti, tanto chi ingrassa, noi ce lo possiamo permettere! D’estate, cremino con tanta panna, porzione grande ché abbiamo bisogno di tanta caffeina!

E poi vi erano gli incontri per lo shopping, e Disegual vinceva su tutti e tutto sempre, e gli incontri seri, quelli in cui leggere poesie e scrivere canzoni. Perché tu cantavi e mi rubavi il cuore ogni volta che lo facevi e io scrivevo e scrivo ancora. E di notte la prima a ricevere i miei versi eri tu. L’indomani mezza rintronata di farmaci e sonno, acceso il cellulare vi era sempre il tuo messaggio puntualmente mandato di notte (ma non dormivi mai?, mentre io già ero bella e crollata), nel quale solennemente benedicevi quello che avevo scritto. “È bellissimo, amica mia, mi fai sempre piangere. Ma davvero tu ci credi a quello che scrivi? Davvero esiste l’amore di cui tu sempre parli?” Mesi prima che te ne andassi mi hai detto: “Sai, Lia, esistono tanti tipi di amore. Mio marito è un angelo! Io non pensavo di meritare un amore così grande; si prende cura di me in tutto, dalle pillole che puntualmente mi dimentico di prendere, alle visite, ai documenti e referti medici da spedire a Milano, dai bambini che hanno tante esigenze, alla scuola e poi la casa… insomma, sì, esiste quell’amore, amica mia. E non è fatto solo di lenzuola, candele e colonne sonore. È fatto di presenza, cura, generosità, fatica intessuta di sorrisi, mani strette, abbracci che fanno dimenticare il mondo intero e di attese lunghe senza mai lamentarsi, senza condanne. Senza mai sentirsi monca perché meno bella, meno sexy, meno attraente o desiderabile. Sono una donna fortunata, una madre fortunata, una figlia fortunata, una amica fortunata e sono stata anche una artista fortunata.

Negli ultimi anni ho fatto tutto quello che per una vita mi sono negata di fare. Ho cantato, recitato, fatto musical, scritto, comprato un pianoforte e preso lezioni, fatto corsi di recitazione, psicoterapia, teatro, yoga… tutto! Mi spiace solo non averlo capito prima che la vita è breve e non va vissuta di rimpianti ma di desideri. Ho fatto pace con me stessa, con quella donna che pretendeva essere una madre perfetta, una moglie perfetta, una professoressa perfetta, una figlia perfetta, una sorella perfetta e una amica perfetta. Invece sono questa! E sono felice perché tutti voi avete capito e mi avete lasciato fare senza farmi sentire in colpa, senza giudicarmi, senza tarparmi le ali, mi avete permesso di essere libera come una farfalla. Avete dimostrato di amare la vera Livia, non quello che il mondo si aspettava io fossi. Me ne posso anche andare in pace ora, ora che ho capito.

“Livia, ti dissi, sei e sarai sempre la mia migliore amica; per te ho fatto e rifarei tutte le follie nelle quali mi hai trascinato e nelle quali mi sono sentita perfettamente a mio agio. Devo ammetterlo; tu sei stata Luce di Bellezza nell’isola tutta vento che per un anno da quel caffè ci ha visto inseparabili. Sei stata il mio grande esempio di forza, tenacia, passione e non hai mai avuto paura delle condanne, delle accuse, dei giudizi, tu hai camminato sempre a testa alta certa che l’amore tutto può e tutto supera e che non c’è nulla che con il tempo non si sistemi. Sei stata il mio grande esempio di coraggio e di perseveranza fino alla fine, fino a quell’ultimo palco che ti ha visto sulla scena a pochi mesi prima della fine. Ti dissi in quell’ultimo incontro: “Non te ne andare! Come faccio adesso io spersa nel mondo senza le nostre cioccolata-time? I nostri cremini-time? Senza la tua voce che mi toglie il fiato, senza le tue strambe follie e le tue scenate di gelosia quando a conclusione di giornata mi scrivevi con tono categorico: “Dimmi che sono io la tua migliore amica! Che io sono al primo posto, che ami me!”. E io lì a rassicurarti e dirti: “E chi potrei amare più di te? C’è un’altra folle che a quest’ora di notte potrebbe mai disturbarmi con queste domande assurde?” Ridemmo come due bimbe a cui la vita ingiusta stava togliendo troppe cose e troppo in fretta.

Io ancora avrei bisogno dei tuoi occhiali smarriti e poi ritrovati appesi ai fili della biancheria, delle tue improvvisate di pomeriggio con: “Metti su una tisana ai frutti rossi, ché devo parlarti!”. Io ancora avrei bisogno del tuo “Passami del materiale ché devo preparare una verifica ma intanto ho il corso di teatro!”. Io ancora ho bisogno di te, ovunque tu sia. Ho tutta la nostra chat conservata in una parte segreta del cellulare e sai, quando mi sento troppo sola e con il cuore troppo vuoto e sventrato, corro ad ascoltare la tua voce piena di vita. Allora corro in doccia, mi trucco, mi faccio bella, ascolto il tuo pezzo preferito, La costruzione di un amore di Ivano Fossati, e mi vesto tutta elegante e sexy come piaceva a te, con il cappello, la sciarpa, gli orecchini lunghi, il profumo al gelsomino notturno e corro al nostro bar, poi mi siedo al nostro tavolo e ordino una cioccolata bianca con biscotti ma non ti aspetto perché già so che sei lì, mi porto il PC e inizio a scrivere perché io devo vivere anche per te, amare anche per te, sognare per te e “costruire” come mi hai detto tu.

Costruire con tutta la bellezza che posso mettere dentro le parole. Perché te l’ho promesso, quell’ultima volta in cui ci siamo dette “arrivederci”. Perché, avevi ragione tu, amica mia: l’Amore vero, addio non lo dice mai.