“Il vizio delle parole”, i racconti della domenica mattina

La Bussola e la Scatola

di Bia Cusumano

“Cosa ami più di lui ?”, disse Roberto rivolto a Martina, fissandola negli occhi grandi che aveva, e lei guardando Pietro: “Il suo odore”. “E tu cosa ami più di lei?” E Pietro guardando Martina seduta al tavolo della sala da pranzo, mentre i tre stavano cenando insieme, in una fredda serata di fine dicembre, rispose: “Il suo modo di farmi sentire amato”. Martina allungò la sua mano delicata verso il petto di Pietro, una fugace carezza, come a siglare quella appartenenza indissolubile all’odore del suo uomo. Pietro fece la sua solita espressione che cominciava dalle labbra e finiva negli occhi che strizzava come a compiacersi delle parole appena pronunciate dalla sua Martina, durante una cena a tre improvvisata, con spaghetti e il sugo buono, fatto da Pietro senza che nessuno osasse avvicinarsi al piano cottura, lui ossessivo di pulizia, lui che teneva quella casa come fosse una piccola bomboniera preziosa. Il suo “Orgoglio” la chiamava. Spesso guardava Martina di molto più giovane di lui, ancora inquieta e sognatrice, con la sua aria di uomo più grande e saggio e le ripeteva: “Vedi, io nella mia vita tante cose le ho sbagliate e forse non sarei dovuto nemmeno tornare, sarei dovuto restare a Roma e fare come hanno fatto tutti gli altri, colpo di culo e voce a rompere, e sarei diventato magari un cantante affermato. Ma almeno una cosa giusta l’ho fatta nella mia vita, questa casa. Fatta da solo, con i miei sacrifici, arredata tutta da me, con cura e dedizione, il mio orgoglio”. Pietro aveva una villetta vicino al mare e nelle notti di dicembre si sentiva spesso lo sciabordio delle onde sferzate dal maestrale sovrastare perfino la musica che vi era sempre a casa sua, insieme a una nube di fumo che si spandeva nell’ampio salone, tra libri, DVD, candelabri, spade antiche e tutte le cornici con le foto dei suoi innumerevoli viaggi compiuti in giro per il mondo. Quella casa fu il loro rifugio intimo e segreto per diversi anni. Martina ancora studiava all’Università, troppo giovane, ribelle e gelosa di quell’uomo che cantava da Dio e quando Pietro cantava a Martina si fermava il cuore in petto. Lo guardava beandosi di quella voce da tenore che riusciva a toccare ogni cosa, adorava il suo modo di interpretare i brani, la sua arte, la passione e la tenacia con cui si era sempre dedicato alla musica e quella eccentrica stravaganza che poi nella vita di ogni giorno aveva. Forse quindici anni di differenza erano troppi per amarsi. Forse lui che figli non aveva mai fatto ma ci aveva provato con la sua ex moglie, desiderava un figlio finalmente. Forse lei invece da lì a poco laureanda in Lettere sognava di fare la giornalista o la scrittrice o chissà. Martina alle spalle aveva una famiglia molto ricca e con molte aspettative su di lei e lui era troppo grande e “inconcludente” così lo definivano i suoi genitori. Una volta il padre di Martina, durante una lunga conversazione avvenuta tra i due la domenica pomeriggio, durante il rito del thè e dei biscotti, le aveva detto: “Ma tu lo capisci che sei giovane, bella, talentuosa e puoi avere tutto quello che vuoi nella vita? E stai con uno che canta? Potresti avere un docente universitario, un medico affermato, che so, un imprenditore che ti tratta da principessa, come ti abbiamo cresciuto io e tua madre, e tu ancora continui questa relazione con il cantante? Cui prodest?” Il padre di Martina concluse la sua amara riflessione con una citazione in latino, segno che era abbastanza arrabbiato da far riaffiorare le sue reminiscenze classiche ma come sempre sapeva gestire la sua rabbia con decoro, da gran signore qual era, sufficiente per non rovinare il solenne rito del thè. E poi non amava ferire i sentimenti di Martina, adorava sua figlia, tanto che una volta, durante un colloquio con uno psicoterapeuta, si era definito: “Martina dipendente”. In effetti tra i due, padre e figlia, vi era un legame profondo, intessuto di infinite parole, confessioni, intimità e sogni. Ma insomma, Martina era giovane, bella, intelligente, ricca, quando parlava incantava il mondo con la sua preparazione e la sua dialettica, perché avrebbe dovuto desiderare per la figlia proprio un artista squattrinato, con un matrimonio finito alle spalle, con quindici anni di differenza e che ogni tanto (lo sapeva perfino lui) si faceva qualche canna e che pretendeva la libertà di fare nella vita esattamente quello che amava fare, cioè cantare, piuttosto che assicurare alla figlia una vita agiata e senza preoccupazioni per il futuro? Martina sapeva bene che le domande che assillavano il padre erano proprio queste ma lei seduta con la sua tazza di porcellana in mano, sorseggiando thè al limone e zenzero, rispose semplicemente, con quel suo candore che avrebbe pietrificato chiunque: “Perché Pietro quando canta ferma il mio mondo. Perché la sua voce è la cosa più bella che io abbia amato nella mia vita e poi sai papà, tu mi chiedi delle spiegazioni, io penso che se riuscissi a dartele quelle buone ragioni che cerchi tu, io Pietro non lo amerei affatto. Proprio perché non te lo so spiegare sento di amarlo profondamente. Perché l’amore accade. Non si spiega”. Giacomo si alzò dalla poltrona, adagiando con garbo la sua tazza di porcellana preziosa sul tavolinetto di cristallo, si diresse verso l’ampia vetrata che guardava in quello che loro chiamavano il giardino d’inverno e sospirò. Cosa si poteva rispondere a Martina? Che a dispetto dei suoi giovani anni possedeva tutta la profondità d’anima che un padre si potesse augurare che una figlia avesse? Nulla. “La verità – disse Giacomo – è che hai ragione tu Marti. L’amore non si spiega. Non fare dunque come me. Almeno tu, libera e tenace tanto da seguire il tuo cuore più che ogni buona ragione, vivi i tuoi anni intensamente, stai con il tuo cantante che quando canta ferma il tuo mondo e non farti condizionare da nessuno, nemmeno da tuo padre. Perché preferisco vederti, innamorata e con gli occhi pieni di luce accanto a un artista “squattrinato” piuttosto che spenta e infelice accanto a un chirurgo di fama”. “Vedi da chi ho preso, papà? Esattamente da te”. Martina si avvicinò a suo padre da dietro, lo abbracciò e con tutta la tenerezza che può legare un padre a una figlia, gli disse: “Sono felice con Pietro, sì, di una felicità che non si può spiegare e lo so che non vorresti mai mi capitasse quello che è accaduto a te con mamma. Un amore tutto costruito sulle buone ragioni, senza nessuna passione, nessun incanto, nessun cuore che batte all’impazzata. Nessuno Odore che sigla appartenenza. Sei il migliore padre che una figlia possa sperare di avere. Un uomo che mi ha insegnato a essere libera e forte all’incontrario di quanto tu sei stato, schiacciato purtroppo dal senso del dovere e dai pregiudizi sociali. Tu e mamma siete due universi paralleli, non vi incontrerete mai. Eppure tu, ti sei sacrificato per noi, sei rimasto in questo castello che per te è una prigione, io lo so, solo perché l’Amore è Restare. È Esserci. Me lo hai insegnato tu. Ora non meravigliarti se tua figlia ama follemente un cantante senza futuro, perché tutta questa felicità non torna più, papà, non si ripete, lascia che io la viva fino all’ultima molecola. Non rientro per cena,- disse- dormo da Pietro, oggi è sabato”.

Fu proprio in quella cena che poi Roberto stranamente chiese a Martina e a Pietro cosa amavano l’uno dell’altra. Strana coincidenza. Ovviamente Martina non raccontò mai di quel dialogo che aveva avuto con il padre a Pietro ma da lì a poco, essendo proprio il compleanno del padre, Pietro fu invitato e presentato a tutta la famiglia come il fidanzato ufficiale della figlia e accolto da tutti con somma gentilezza e affetto. Un giorno Martina prese una bussola dalla collezione di oggetti preziosi del padre, tenuti dentro la credenza antica del salone, e la mise dentro il suo zaino con i suoi inseparabili libri di poesie e corse da Pietro. Proprio quella notte in cui per la prima volta Pietro le disse: “Ti amo Martina, non lasciarmi mai, promettilo”. Lei uscì la bussola dallo zaino e senza ricambiare il ti amo la mise nelle mani di Pietro e disse: “L’amore è il Nord. Tutte le volte che guarderai questa bussola, cerca il Nord. Ricordatelo, Pietro, senza amore si perde la direzione, ci si smarrisce preda di voci di Sirene che portano al fondo di abissi vorticosi. Solo l’Amore salva”.

Pietro non capì poi tanto cosa c’entrasse quella frase con la sua prima reale dichiarazione d’amore ma l’abbracciò stretta e la baciò teneramente. “Non la perderò mai, Marti, – disse – la conserverò sempre, te lo prometto. Grazie, è bellissima, proprio come te!”

Quando Martina tornò a trovare Pietro in quella villetta sul mare in cui si sentiva forte il maestrale era proprio dicembre come la notte di quella famosa cena, solo che erano trascorsi dieci anni da allora. I due si erano lasciati dopo pochi mesi dal dono della bussola. Martina si era laureata con il massimo dei voti, era stata a studiare fuori, master, specializzazioni, titoli su titoli, poi era rientrata in Sicilia. Nel frattempo i due si erano innamorati di altre persone, finanche convissuto con altri. Dieci anni di silenzio assoluto. Lui era rimasto sempre in quella casa. Sempre a cantare e forse il mondo lo aveva fermato a tante donne in quegli anni in cui lei invece si era costruita una solida carriera e ora finanche scriveva, come aveva sempre sognato fare, su una rubrica letteraria, su una testata giornalistica molto importante. Come accadde un giorno forse i due lo sapranno spiegare. Ma non è poi dato sapere come accadono davvero le cose; più facile forse guardarle dalla giusta prospettiva, da lontano e dopo tempo, tanto tempo… Martina era rientrata in Sicilia da poco e aveva fatto un sogno. Martina, donna affermata ormai e sicura di sé, non più quella ragazzina sognatrice e inquieta. Aveva sognato Pietro e la sua villetta. Gli aveva scritto l’indomani prima di andare al lavoro, nemmeno sapendo se fosse sposato, fidanzato, se avesse fatto un figlio, insomma non sapendo più nulla di lui. Gli scrisse così: “Ti ho sognato, ieri notte; stai bene? Sono Martina”. E lui con tutta la naturalezza del mondo, come se in questi dieci lunghi anni si fossero sempre sentiti, le rispose con immediatezza: “Sì, sto bene, diciamo. Mia madre ha avuto dei problemi seri di salute e, sai, Achille non c’è più. Ho un altro cane adesso”. Da allora avevano ripreso a scriversi come due buoni vecchi amici, tra le mille cose della vita frenetica che Martina conduceva e uno di quei periodi in cui Pietro invece era parecchio giù. Si conoscevano tanto bene che perfino quando si scrivevano comprendevano l’uno lo stato d’animo dell’altra. E tra i due era tutto così naturale come se quei dieci anni non fossero mai passati. Un giorno, uno dei tanti in cui i due si vedevano per sorseggiare un caffè, fumare una sigaretta, guardare un film o fare discorsi su tutto e tutti o solo guardarsi per prendersi in giro, lei tirò fuori, questa volta non da uno zaino ma da una borsa griffata, una bellissima scatola di legno e gliela diede. “Ecco – disse, guardando Pietro – ti conosco abbastanza bene da sapere che nonostante i dieci anni trascorsi, la bussola ce l’hai ancora conservata; sicuramente in uno dei tuoi tanti infiniti scatoloni. Cerca e trova la bussola e mettila in questa scatola di legno. La scatola era di mia nonna, quando l’ho vista lì sul comò, ho sentito che dovevo portarla a te. Perché ci vuole un posto prezioso per custodire tutto il Nord di una vita: il nostro Amore, quello che fu e che io non ho mai scordato”. Pietro la guardò come la guardava dieci anni prima in fondo, con quello stesso sguardo stranito di quando la ascoltava pronunciare frasi profetiche ma la conosceva abbastanza bene da non disobbedire pur non comprendendo esattamente mai cosa volesse dire. Si limitò a rispondere: “Sì, hai ragione, la bussola esiste ancora, sapevo quanto fosse importante per te, la cerco. La scatola poi, Marti, è bellissima. Appena trovo la bussola la metto dentro la scatola. Poi ti mando una foto. Ma mica sei riapparsa dopo dieci anni nella mia vita per una scatola di legno, per quanto bella e preziosa possa essere, affinché ci metta dentro la bussola?” “Ora è il momento del rito del caffè”, disse Martina sorridendo, come chi vede sempre oltre e altrove in un posto in cui gli altri devono ancora arrivare e lei invece c’è già stata. “Ti ho portato la caffettiera nuova perché l’altra volta il caffè, fattelo dire Pietro, faceva proprio schifo!” I due scoppiarono a ridere, presero il caffè, mangiarono i pasticcini, ascoltarono Pino Daniele, continuarono a ridere raccontandosi gli ultimi gossip della città e dei loro ex amori e poi Martina bella e determinata come la donna che era destinata a diventare gli disse: “Ora la bussola ha una casa, perché tutti prima o poi torniamo a casa, Pietro, tutti. È solo questione di tempo. Ci vediamo presto, ho un articolo da scrivere e da consegnare entro questa notte, ma ogni volta che ti vengo a trovare è come se il tempo si fermasse davanti questa porta e restasse fuori. Così come quando cantavi, il tempo si fermava per me e tutto il mondo scompariva. Esistevi solo tu. Scappo. Scarica quel film su cui devo scrivere un pezzo, lo vediamo insieme, al più presto!” Pietro fece appena in tempo a dire: “Ma quando?” e già si sentivano soltanto i tacchi di Martina risuonare per la strada del lungomare e poi un: “Presto… promesso”. Pietro rincasò, pulì la scatola di legno con cura e attenzione da perfezionista qual era, cercò dentro tutti gli scatoloni che aveva accatastato negli anni, trovò la bussola, la lucidò e la ripose con incanto dentro la preziosa e antica scatola di Martina. Poi sospiro e tra sé e sé disse: “Presto, speriamo non fra altri dieci anni!”