“Il vizio delle parole”: i racconti della domenica di Bia Cusumano
La Rosa Rossa
Gaia non ricordava nulla. Il buio più assoluto. Si svegliò come da un incubo con conati di vomito e capogiri da montagne russe. Aveva esagerato. Certo era la festa di maturità ma bere in quel modo era stato eccessivo. Forse era meglio aspettare pazientemente a letto, senza farsi assalire dall’ansia e poi magari chiamare Emma. La sarebbe venuta a prendere con la macchina nuova. Non sapeva neanche che ora fossero. Le cinque o le sei? Notte fonda o mattina? Bussò l’addetta alle pulizie. Mio Dio! – pensò – doveva essere molto più tardi.
“Signorina, posso entrare a rifare il letto e pulire la stanza?” – una voce gentile – dall’altra parte della porta.”
No, alzarsi era impossibile in quelle condizioni. Provava bruciore ovunque. Il corpo le scottava come se tutti i muscoli fossero pieni di acido lattico. Ma che aveva fatto? Ah sì ballare coi tacchi alti fino a notte fonda e poi bere, bere come se non ci fosse un domani. Ora era nella camera dell’albergo. Era stato tutto un meraviglioso regalo organizzato dal suo fidanzato. Gianluca, davvero un ragazzo per bene e poi bello e raffinato. Un futuro brillante docente che le avrebbe dato tutto l’amore che le era sempre mancato.
“Guardi, sto poco bene, può sistemare le altre stanze e mi dà ancora un po’ di tempo?” – rispose – con uno sforzo immenso.
“Certo! Ci mancherebbe, se ha bisogno di qualcosa chiami il centralino della hall, passo dopo, non si preoccupi.”
I passi nel corridoio dell’albergo si allontanarono lentamente. Non riusciva proprio ad alzarsi, giusto a muovere gli occhi intorno. Filtrava parecchia luce nella stanza e il letto matrimoniale era tutto sgualcito. Vi erano petali rossi ovunque. Doveva solo trovare il cellulare e chiamare. Sì, tanto era uguale o Gianluca o Emma. Uno dei due sarebbe andato a prenderla. Gianluca sicuramente era all’Università a quell’ora. Meglio chiamare l’amica di sempre.
“Cazzo, questo cellulare, quando lo cerchi non lo trovi mai – disse ad alta voce- ma i conati presero il sopravvento per cui per non vomitare sulle lenzuola sporse la testa giù dal letto. Decisamente meglio vomitare sul pavimento. Avrebbe spiegato poi alla povera cameriera. In quella stanza vi era proprio l’inferno.
“Ah ecco, il cellulare è sotto il letto. Vomitare almeno serve a qualcosa!” Provò ad ironizzare per darsi coraggio.
Arrivare a prenderlo certo era una impresa, con la testa in perenne rotazione, ma mai arrendersi, le aveva insegnato suo padre, finché era in vita. Sì, se ne era andato troppo presto. L’unico al mondo che l’aveva amata e protetta ma un tumore ai polmoni se lo era divorato. Tra conati e rigurgiti, allungò il braccio fin sotto il letto per afferrare il cellulare. Adesso era più che oro per lei. Eccolo tra le mani imbrattate di vomito e saliva. Si pulì appena le labbra e cercò tra le ultime chiamate in memoria. In effetti era proprio Emma, non Gianluca, l’ultima chiamata registrata. Strano, l’aveva portata lui in quel posto da favola per festeggiare la maturità presa con i massimi voti.
“Emma, sto malissimo, avrò esagerato con l’alcol ieri notte, vomito e mi gira tutto, vienimi a prendere, sono all’albergo Salinas.” Blaterò altre parole all’amica di sempre e riattaccò. Man mano che la luce filtrava nella stanza, riusciva a mettere a fuoco meglio quello che vi era dentro e attorno a quel letto. Non era un bello spettacolo, meno male che non era entrato nessuno ancora in camera. I suoi slip e il suo reggiseno erano stretti e avvinghiati come fossero una lunga corda di stoffa. Il suo abito da sera senza più lampo, sdrucito e con l’orlo strappato. Le lenzuola tra vomito e macchie rossastre. Forse l’eccesso di rossetto rosso. Di sicuro i baci focosi del suo Gianluca. Aveva proprio esagerato. Vi erano confezioni di preservativi gettati per terra. Ma se con Gianluca ancora non l’avevano fatto? Lui glielo aveva chiesto insistentemente parecchie volte, lei non si sentiva ancora pronta.
Allucinazioni. Erano allucinazioni. Doveva essere ancora ubriaca fradicia.
“Apri la porta! Gaia, sono io! – Emma bussò insistentemente- guarda che anche io ho una vita! E dovrei andare anche a lavorare, tocca a me oggi gestire l’azienda! Mica tutti facciamo i bagordi la notte come te … e sai per cosa poi? Per una maturità che ti costringerà a prenderti una laurea che non ti darà mai quello che vali e meriti! Meglio una azienda privata pure senza laurea!”
Sì, era arrivata Emma con le sue rigorose e inflessibili riflessioni sul mondo del lavoro. Peccato che non tutti ereditassero l’azienda di famiglia come era toccato a lei e a suo fratello.
“Non ce la faccio ad alzarmi, vomito, mi gira tutto, e in questa stanza c’è il delirio, ti prego mi brucia tutto, sto troppo male, chiedi la copia della chiave alla hall dell’albergo. Ti prego.”
“E Madonna Santa, signorina bella! Tutti ci siamo ubriacati almeno una volta nella vita, sai che spavento! Si vede che sei tipa da libri e non da nottate, tu! Vado.” – replicò – incazzata più che mai.
Era luglio e il caldo iniziava a diventare infernale. Bisognava trovare il telecomando dell’aria condizionata, perché Gaia sentiva un bruciore e un caldo pazzesco, da perdere i sensi.
“Sarà sotto il letto, pure il telecomando? – si chiese – quasi quasi ridendo tra tutto quel pasticcio di vomito e macchie rossastre.”
Entrò Emma finalmente in stanza e forse l’unica cosa che Gaia non potrà scordare per tutta la vita, saranno gli occhi sbarrati della sua migliore amica e le sue lacrime mute.
“Mio Dio, che ti hanno fatto?” Le parole rimbombarono nella mente confusa di Gaia che no, non ricordava niente. E poi che cosa le avrebbero potuto fare? e chi? Colpa sua che aveva esagerato con l’alcol in una notte di sballo eccessivo. Gaia guardò Emma tra il vomito e l’odore acre di rossetto sbavato ovunque.
Ma non era il rossetto che faceva quell’odore sgradevole o i petali sgualciti gettati un po’ ovunque nella stanza. Gaia era nuda nel letto, tra lividi e macchie di sangue ovunque.
Quello che accadde la notte della festa all’Hotel Salinas, non fu mai chiarito. Emma aveva ricevuto una telefonata da Gaia verso le undici di sera, breve e laconica: “Domani mattina vieni a prendermi tu in albergo, Gian è all’Università”.
Così le aveva detto. Ma questo lo ricordava bene Emma non Gaia. Lei aveva il buio e il bruciore dentro, il caldo come se avesse la febbre altissima e quella sensazione di acido lattico come se avesse corso per tutto l’albergo per l’intera notte. L’odore acre del vomito e poi del rossetto-sangue dentro le narici. Niente altro. Nella stanza furono trovate macchie di sperma misto a champagne. Il sangue di Gaia e tanti petali di rosa rossa. Preservativi buttati un po’ ovunque e la sua biancheria intima completamente sfilacciata e avvinghiata come una corda in tessuto. Era servita per legare i suoi polsi alla testata in ferro battuto del letto matrimoniale. L’abito da sera strappato e sdrucito senza più cerniera ed orlo, le scarpe coi tacchi 12 senza tacchi, la borsetta senza più portafogli e poi pasticche di droga sintetica.
Gaia rimase al buio per settimane, dopo il ricovero in ospedale. Al buio di un orrore senza fine. Gianluca le portava ogni giorno una rosa rossa. Neanche la sfiorava. Era impossibile. La guardava in silenzio.
Gaia ogni volta che vedeva la rosa poggiata ai piedi del suo lettino, aveva appena la forza di gettarla a terra con un leggerissimo movimento delle gambe. La sua voglia di vivere era pari a quell’esile rosa. La sua bellezza svilita come la rosa gettata sul pavimento. Lasciata lì come cosa inerte.
Un pomeriggio in ospedale, Emma che mai lasciò l’amica neanche per un secondo e andasse pure a farsi fottere l’azienda di famiglia, con un moto di rabbia incontrollabile, afferrò violentemente il braccio di Gianluca e gli urlò in faccia con tutto il livore che provava: “Senti qui, pezzo di merda, tu sei stato l’ultimo a vedere Gaia quella notte, e non hai saputo dare un cazzo di spiegazione plausibile a nessuno. Hai detto che l’hai lasciata in camera ubriaca, davvero un ragazzo per bene! I miei complimenti! Non si lascia chi si ama, sola e ubriaca in una camera di albergo. Hai detto che quei petali rossi sparsi per la stanza non c’entrano con la tua ossessione per le rose e ogni giorno qua ti permetti di portare una rosa rossa a Gaia che puntualmente la getta giù dal suo lettino. Hai detto che sei corso a casa dopo averla lasciata in albergo e che non l’hai neanche sfiorata. Sta di fatto che Gaia è ancora in questo maledetto ospedale a curarsi lesioni, abrasioni, ferite e lacerazioni che non so quando passeranno e anche quando passeranno, il resto ti assicuro non passerà mai del tutto. Hai detto che l’indomani eri all’Università ma sai che c’è, nessuno ti ha visto al corso di filologia, quella mattina, e non vi era una e una sola chiamata verso la tua fidanzata che sapevi sola in albergo ed ubriaca. Tu e i tuoi amici altolocati, voi illustri figli di papà di questa città tutta finta e per bene, che le avete fatto? Tanto anche se non lo dici, poiché la verità non è una parola che ti appartiene, io lo so! e sappi che farò di tutto per riscostruire la notte dell’orrore! E allora, sai che accadrà? Le rose te le porterò io, però in carcere, pezzo di merda!”
Gianluca da allora non si fece vedere più in ospedale ma puntualmente ogni giorno arrivavano le sue rose rosse, che Emma cestinava senza che le sfiorasse nemmeno l’idea di riferirlo a Gaia, persa dentro il suo limbo oscuro. Continuava a non ricordare nulla. Gaia era figlia unica, orfana di padre e la madre, un soprano di fama internazionale, sempre in giro per il mondo, non era riuscita mai a prendersene cura. Gaia era cresciuta con tate e donne di servizio. I migliori vestiti, le migliori scuole, le migliori vacanze. Insomma il lusso più assoluto. Sì, tanti soldi che la madre le spediva con bonifici da ogni parte del mondo ma senza l’amore e la presenza di una madre. Era stata una bimba terribilmente sola, una adolescente sola, una talentuosa alunna sola. Aveva ereditato da mamma una voce straordinaria, ma lei non voleva cantare, voleva fare il medico. Da papà suo, aveva ereditato l’onestà, la correttezza, l’amore smisurato per la vita, la bellezza, il coraggio della verità e poi i capelli rossi. A lei dei soldi non gliene fregava nulla. Voleva solo essere amata. Era bella e intelligente. Una ragazza dolce, sensibile e davvero generosa. Non ci fosse stata Emma non so se mai Gaia si sarebbe potuta riprendere. Emma era tutto per lei. La sorella maggiore mancata, sua amica e forse anche un po’ sua madre. Emma era famiglia. La sua Itaca. Ad Emma, Gianluca non era mai piaciuto e lo sentiva a pancia che dietro la notte dell’orrore pur qualcosa il fidanzato per bene e figlio di papà, doveva c’entrarci qualcosa. Sparì dopo decine e decine di rose rosse. Gaia uscì dall’ospedale a fine agosto. Alla madre di Gaia, entrambe decisero di raccontare tutto al rientro del suo ennesimo viaggio per il mondo. Era in tournée a cantare sui palchi più prestigiosi della musica lirica. Fu sporta denuncia contro ignoti perché le prove non erano sufficienti per incastrare Gianluca. Le violenze carnali erano state perpetrate da più persone perché le tracce di sperma erano multiple. E no, quello di Gianluca non combaciava con nessuno di quelli trovati tra le lenzuola e il corpo di Gaia. Gianluca era innocente.
Emma aveva la sua verità sui fatti ma se la era tenuta per sé. Gaia non ricordava nulla perciò era impossibile ricostruire la vicenda della notte trascorsa dentro la stanza numero 14 dell’Hotel Salinas in quella città a cui apparteneva Gianluca. Il fidanzato non colpevole, assolto nel processo che la madre di Gaia volle a tutti i costi. Imbastito con i migliori avvocati che potessero difendere la figlia per incastrare quel ragazzetto viziato e innocente. Fiumi di soldi ma non vi erano prove. Un buco nell’acqua. Solo l’onta della vergogna, della colpa, l’umiliazione di raccontare l’orrore senza soluzione. Bisognava solo andare avanti. Pur con il corpo martoriato e quel senso di sporco perenne addosso che non andava mai via. Una lettera scarlatta rossa più della rosa.
Di questa orribile storia, non doveva parlarsene più. Questo fu il patto. Fingere che non fosse mai accaduto nulla. Andare via da quella terra, frequentare l’Università fuori. Gaia si trasferì a Roma. Di anni ne passarono davvero tanti, ormai era laureanda in medicina. Riuscì tra incubi, attacchi di panico, ansiolitici e psicoterapia, a trovare il modo di non soccombere a quella vicenda. Emma la andava a trovare quasi due volte al mese. Uscivano, ridevano, si divertivano come le amiche di sempre, solo con la consapevolezza e la saggezza di essere ormai due donne adulte. La madre di Gaia le mandava tanti di quei soldi che lei poteva permettersi tutto. Il senso di colpa per quello che era successo alla figlia e di impotenza nel non averla potuta proteggere dall’orrore che aveva vissuto, non sapeva espiarlo se non con valanghe di soldi. Negli anni successivi a quella notte era caduta in una profonda depressione. Le aveva regalato l’infinito. Aveva smesso di cantare. Si era ritirata dalle scene e dai palcoscenici della musica di fama internazionale. Ma a Gaia della bella vita non le era mai importato nulla né dei soldi. Avrebbe preferito essere povera ma con una madre accanto. Si era messa sotto con lo studio. Si era data tutti gli esami e con il massimo dei voti. Le mancava la tesi e finalmente avrebbe coronato il suo sogno. Dopo anni faticosi e di grande dolore ma c’era riuscita. Era brillante. Dottoressa in medicina e chirurgia generale. Voleva proseguire in psichiatria. Forse per affondare e vivisezionare la sua anima prima che quella dei suoi pazienti. E se nessuno era riuscito a salvare lei quella notte, ora sentiva l’esigenza assoluta di salvare gli altri dall’abisso di dolore e violenza. Fu allora che lo conobbe e se ne innamorò subito. Uno psichiatra bellissimo. Alto, capelli brizzolati, occhi verdi, barba incolta. Gli ricordava tanto il suo papà. Sarebbe stato il suo tutor durante il tirocinio. Quando la invitò per la prima volta a cena fuori, con la sua Audi blu elettrico, Gaia era bella da togliere il fiato. Lui con garbo le aprì la portiera, la fece accomodare in auto e richiuse la portiera. Adagiata sui sedili posteriori a fare da cornice a quella romantica serata, una profumata e bellissima rosa rossa. Gaia riaprì la portiera di scatto e vomitò senza possibilità alcuna di contegno.
“Gaia! Gaia! Mio Dio, stai male? – disse Giorgio – che succede?”
Scese immediatamente dall’auto e le poggiò amorevolmente la mano sinistra sulla fronte, sorreggendola mentre Gaia continuava tra rigurgiti e vomito a rimettere l’anima.
“Ti porto subito in ospedale, stai troppo male. Forse hai beccato un virus in corsia o hai una intossicazione alimentare, ora vediamo. Calmati Gaia, tremi come una foglia. Ci sono io con te, non preoccuparti, non ti lascio. Una flebo e risolviamo tutto. A cena andremo un’altra volta, l’importante adesso è che tu ti riprenda.”
Giorgio e i suoi occhi verdi mare, il suo carisma sexy e il suo self control da medico professionista. Giorgio galante e protettivo, dolcissimo, un uomo e un medico dal cuore gentile. Romantico tanto da regalare al primo invito fuori, una bellissima e profumata rosa rossa dallo stelo lungo.
Gaia aveva improvvisamente, dopo anni di buio, ricordato tutto, grazie a quella strana e inaspettata coincidenza.
Gaia e Giorgio si sposarono. Mentre Emma andava spargendo petali di margherite ovunque e donava mazzetti di fresie gialle a tutti gli invitati presenti alla festa nuziale, da brava damigella, Gaia strinse forte l’amica di una vita e le sussurrò all’ orecchio: “Ricordo tutto della notte dell’orrore, Emma. Tutto. Ci sono riuscita all’improvviso. La prima volta in cui sono andata fuori con Giorgio. Mi sono tatuata una rosa rossa sul costato. Perché il dolore avrà sempre un nome e il passato non voglio cancellarlo. Ho imparato a conviverci.” Emma la guardò con gli occhi sbarrati, pieni di lacrime mute esattamente come allora.
“Giorgio è l’uomo che non solo mi ha ricondotto alla vita ma mi ha restituito il coraggio della verità, quello che avevo sepolto per paura di ricordare. Quando torneremo dal viaggio di nozze in Giappone ti racconterò come è andata quella notte. Ti sembrerà strano ma una rosa rossa mi ha ucciso tanti anni fa in Sicilia e una rosa rossa mi ha restituito la vita, con la forza e la dignità di essere una donna che finalmente oggi non prova più alcun senso di colpa o vergogna. No, non è stata colpa mia. Il male torna sempre al mittente. Si vendica da solo, Emma, credimi. Non ha bisogno di ulteriori vendette.”
Emma la guardò sconvolta ma la festa incalzava e continuò da brava damigella a distribuire fresie e a gettare petali di margherite in giro per la sala. La verità, dopo anni a cosa sarebbe servita?
Forse a fare giustizia, non vendetta. Forse semplicemente a chiudere quel cerchio di orrore per sempre. Gaia era splendida, una sposa radiosa. Giorgio era innamorato folle di lei. Gaia lo ricambiava con lo stesso ardore e la stessa passione. L’amore aveva salvato entrambi e la verità aveva trovato voce dopo quasi vent’ anni di buio. La verità non era più un mostro che divorava, era solo la verità. Aveva ragione Gaia, il male si vendica da sè. Non ha bisogno di ulteriori vendette.