Di Calogero Pumilia

C’è ressa alle porte del Partito democratico di Sicilia. Oltre a quelli che le hanno già varcato, in particolare a Ragusa e a Catania, una folta schiera di politici di vario livello e provenienza preme insistentemente.

La scomposizione della destra e la scomparsa di alcuni schieramenti locali spiegano in parte questa trasmigrazione. Si cerca una nuova casa più solida e può anche darsi che alcuni abbiano maturato una sincera adesione ai principi e al progetto del Partito democratico.

Per altri c’è la pratica del vecchio sport nazionale: correre in soccorso del vincitore sperando di sedere al desco al momento della spartizione del bottino.

Al di là di ogni processo alle intenzioni, la politica deve essere inclusiva, un partito deve puntare ad allargare i gruppi dirigenti e i consensi per competere con prospettiva di successo. Ogni nuovo arrivo crea inevitabilmente dei problemi in quelli che c’erano già che, magari, temono di perdere le loro posizioni o hanno combattuto i neofiti. Inclusione però non deve diventare occupazione. Il Partito democratico non può finire come il soldato Peppe che aveva preso prigionieri dieci austriaci e non riusciva a tornare in trincea perché essi non glielo consentivano.

In Sicilia, fragile com’è ed obiettivamente corresponsabile di una situazione pesantissima, può trovare linfa e forza da nuove adesioni, ma può rischiare di diventare una cosa diversa da quella immaginata alla sua nascita e per la verità né qui né altrove compiutamente realizzata. E’ legittimo il timore di imbarcare quelli che Crocetta pochi giorni fa ha definito impresentabili, un giudizio spesso di convenienza e perciò anche revocabile. E’ fondato il timore, comunque, di una mutazione genetica dagli esiti imprevedibili. Ma qualunque cosa pensano Crocetta e Raciti e tutti quelli che per qualche ragione temono nuovi arrivi non conta nulla. Le chiavi per tenere serrate o per spalancare le porte del PD le tiene solo Renzi che le dà in uso qua e là ai suoi luogotenenti. Il problema esiste anche a livello nazionale dove si fronteggiano le posizioni del segretario che, se non parla più di partito della nazione, punta ad un soggetto del tutto post-ideologico dagli incerti connotati culturali e politici e comunque vincente e quella minoritaria che pensa ancora alla “ditta” con forti connotazioni identitarie quale che sia la sua capacità di attrazione elettorale.

A favorire Renzi c’è la dissoluzione di Forza Italia e l’emergere della Lega che per le sue posizioni è destinata ad avere un ruolo minoritario nel Paese e pressochè inesistente in Sicilia e nel Sud. Renzi vince perché non ha riferimenti ideologici che motivano ma imbrigliano e delimitano il recinto all’interno del quale ci si può muovere. Egli è l’interprete più bravo di una politica pragmatica che si costruisce giorno per giorno senza grandi riferimenti culturali né orizzonti definiti. Renzi sta compiendo un’opera utile di scongelamento del Paese, sta cercando di liberarlo dall’ingessatura che lo tiene bloccato da quasi trent’anni, sta inserendo scariche di adrenalina in un corpaccio flaccido e senza nerbo.

L’ho votato alle primarie fin dall’inizio della sua avventura convinto della utilità di scalzare una classe dirigente rispettabile certo, ma datata, che teneva il partito e lo bloccava ad un ruolo minoritariom e di offrire una prospettiva di novità al Paese. Cresciuto alla politica in un tempo nel quale si leggevano o si orecchiavano Sturzo, Mouniér, Maritain e le tante riviste di cultura che venivano pubblicate, aduso all’ascolto delle raffinate, difficili e colte analisi di Moro – straordinaria e giurassica la sua relazione al congresso della DC di Napoli del gennaio del 1962 durata otto ore -, degli interventi di Donat Cattin carichi di competenza e di passione sociale, dei ragionamendi – così veniva pronunciata la parola – di De Mita, stento a capire la politica spiegata in 140 caratteri.

Abituato alle assemblee della DC, anche quelle nelle sezioni minori – lo stesso naturalmente succedeva in quelle comuniste e socialiste – dove alcuni di noi facevano o tentavano di fare discorsi lunghi, ricercati , forse autoreferenziali, con il vezzo delle citazioni e dei riferimenti culturali, con uno spettro di argomenti che partiva a volta dalle questioni internazionali, ma che, al netto del politichese, avevano l’obiettivo dell’informazione, del coinvolgimento e anche di una sorta di pedagogia, non provo neppure a cercare di decifrare il vuoto totale di molti degli oppositori di Renzi, dal bolso e patetico mio coetaneo, a quello delle felpe o a quello del vaffa.

Distrutte le vecchie case nelle quali si era nati alla politica e con le quali ci si identificava con convinzione, oggi si deve scegliere ciò che è meno lontano dalla propria sensibilità. La schiera di quanti sembrano bivaccare alle soglie del Partito democratico anche nella nostra provincia è folta. Tranne i parlamentari di questo partito, solo due sono rimasti finora nelle formazioni nella quali sono stati eletti. Tutti gli altri hanno vagato chi più chi meno, anche perché alcuni di loro hanno visto crollare le mura che li proteggevano o sfumare la vincita di precedenti puntate.

Non so cosa capiterà, non conosco nulla delle reali intenzioni di coloro che sembra cerchino di volere varcare le porte del Partito democratico agrigentino anche in vista delle elezioni nazionali con le preferenze. Credo che occupare il PD qui da noi non sarà un compito improbo.

Al di là di lodevoli iniziative dei parlamentari, esso è silente e fragile elettoralmente, lo dimostra anche l’esito della recente tornata elettorale ad Agrigento e a Ribera. In questa condizione l’Opa (offerta pubblica di acquisto) sarebbe agevole. Vivendo vedremo cosa succederà e lo valuteremo per capire se sarà minimamente potabile. Da semplice, attento elettore.

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