Francesca Capizzi: “Undici anni in baracca. Quella notte che scosse il Belìce, che causò morte ma anche speranza”

MENFI.  A 53 anni dal terremoto che colpi la Valle del Belìce i ricordi  sono ancora indelebili.  Sono passati 53 anni da quella terribile notte tra  il 14 e 15 gennaio quando la terra tremò e  il terremoto distrusse la  Valle del Belìce, fu devastante.

Quella notte e quei giorni che seguirono sono scolpiti nella memoria di Francesca Capizzi, giornalista tra le firme più incisive del Giornale di Sicilia e collaboratrice del Corriere della Sera. Quella notte e quei giorni che ebbero eco negli anni, scolpiti ancora delle memoria di una “piccoletta” che visse le difficoltà, le paure, una parte della vita in baracca. Quella “piccoletta” che è cresciuta temprata da quell’esperienza che he la consentito di maturare una grinta giornalistica che la contraddistingue.

Una memoria che Francesca Capizzi, a 53 anni dalla notte che distrusse il Belìce, ci rinverdisce.

 

“Io non ero nata – racconta Francesca Capizzi – ma l’ho vissuto ugualmente. Sono nata l’8 settembre del 1981 e ho vissuto in baracca sino all’età di 11 anni. Le baracche erano costruite con il legno o in lamiera, imbottite di lana di vetro e di pannelli. Le tettoie erano tutte  di amianto così come i recipienti d’acqua, dove tutti noi abbiamo bevuto e ci siamo lavati per anni, proprio con quell’acqua  contenuta nei recipienti d’amianto. Credetemi, sono  stati gli anni più belli dalla mia vita, ero piccola e non capivo. Per gli adulti vivere in baracca non è stata una passeggiata, ma vi assicuro che per noi bimbi era uno spasso. Le baracche portavano i nomi dei quartieri. Mio nonno viveva alle baracche “ San Michele” e aveva una macelleria, mia nonna aveva un piccolo supermercato  e lavoravano tantissimo, un supermercato e una macelleria in una baracca. Strano, vero? No per niente, era la nostra quotidianità. Io vivevo alle baracche “ Pasotti”, ma c’erano altri quartieri”.

“Ogni “zona” era formata da tante baracche tutte vicine, l’uno con l’altra. Quando in una famiglia si litigava o si gioiva per una partita di calcio, l’altra in automatico sentiva tutto. Eravamo un’unica famiglia. Ogni pomeriggio passava con il tre ruote Don Pino, che vendeva gelati e tutti noi bimbi lo aspettavamo con gioia. Aveva il fischietto e quando stava per arrivare, tutti ci riunivamo intorno a lui, nella sua mitica moto-ape. I pomeriggi, dopo la scuola,  erano un divertimento continuo. Si andava in giro ad esplorare gli spiazzali interni dei quartieri, si girava per le baracche o si andava alla bottega di Don Gino, che per noi era tutto il nostro mondo, caramelle, cioccolatini, vendeva di tutto. Per  non parlare dei carnevali. Ci si riuniva in gruppetti e si andava in giro per le baracche, dove all’interno si ballava, c’erano i dj e si mangiava, tutti insieme. Era bellissimo. Vicino la mia  baracca, c’era un parrucchiere e anche una scuola di danza. Tutti in baracca”.

Il terremoto del ‘68 fu una vera e propria catastrofe che sconvolse la serenità di quei posti per sempre, cancellando definitivamente alcuni Paesi. I Comuni di Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Ninfa, Santa Margherita Belice furono scossi irrimediabilmente nella loro vita quotidiana. Una ferita ancora aperta a distanza di più di mezzo secolo. Per decenni gli sfollati furono costretti a vivere e morire nelle tendopoli prima e nelle baraccopoli dopo.

“Le ultime baracche furono smantellate nel 2006. C’è chi non ha mai avuto una casa propria ed è riuscito ad ottenere anni fa, una casa popolare. Io sono stata fortunata perché la casa ce l’avevo, era solo da costruire.  Credetemi, la vita era molto più sana, c’erano rapporti veri, eravamo tutti una grande famiglia. Ho nostalgia di quegli anni. È vero, c’erano disagi non indifferenti: in estate per esempio si moriva dal caldo, in inverno freddo, tanto freddo. La notte, ci fu un periodo che i miei genitori non chiudevano occhio e io ero terrorizzata perché qualcuno si dilettava ad appiccare il fuoco a qualche baracca e puntualmente uscivamo tutti fuori nel cuore della notte per aiutare chi ne avesse bisogno, assicurandoci che fossero tutti sani e salvi. Non scoprì mai nessuno, chi fu quel “folle” a terrorizzare tutti per anni. Una notte, purtroppo, un uomo mori’ carbonizzato. Quando dico che ho vissuto in baracca, mi guardano con gli occhi spalancati, come se avessi detto che ho vissuto in un campo Rom”.

“Le baracche erano molto carine e credetemi, non mancava nulla. Quando sono nata, dopo due anni siamo andati in baracca perché la mia casa era troppo lesionata da quegli anni e come tutti quanti, anche noi siamo andati a vivere lì. Se sono diventata giornalista lo devo a quegli anni post terremoto. Da piccolina, venivano spesso troupe televisive di Rai e Mediaset e io giravo insieme a loro. Mi portavo dietro un piccolo registratore ( mi era stato regalato da mio padre, anche lui giornalista) e un microfono giocattolo. Registravo  la mia voce e ripetevo ciò che dicevano gli inviati. Un giorno, un giornalista della Rai, mi chiese il perché stessi sempre con il registratore in mano e io gli spiegai che da grande volevo fare la giornalista. Ricordo ancora le sue parole: “Lo sai che il giornalismo è un mestiere difficile? Sorrise con dolcezza e poi mi diede in mano il suo microfono e mi fece provare. Mi disse: “Parla a ruota libera e racconta ciò che vuoi” e io raccontai di quanto fosse bello vivere in baracca e  che non me ne sarei mai voluta andare da li. Ci avrei vissuto tutta la vita”.

“Lui, sorrise e mi disse: “Chissà, magari un giorno diventerai davvero una giornalista e racconterai tu stessa questa esperienza”. Ricordo le attenzioni delle tv nazionali intorno ai nostri quartieri e quando arrivavano, per noi bambini era una festa. Li guardavamo con entusiasmo, li interrompevamo di continuo, facevamo mille domande”.

“Qui, in questa foto, festeggiavo i miei 7 anni di vita , uno dei momenti più felici di quegli anni vissuti li, nella mia amata baracca che non dimenticherò mai. Quella casa, l’ho tanto amata e li ho vissuto gli anni più sereni e felici della mia vita. Quando mi dicono di non raccontare che ho vissuto in baracca, io sorrido sempre. Non è una vergogna – conclude Francesca Capizzi – è la storia della Valle del Belice”.