“Esterno notte” su Moro fa del film una caricatura, io c’ero

PALERMO- La mini serie di Bellocchio è un falso storico, che distorce la verità e prosegue ad imbrattare la memoria di chi della propria storia, nel suo complesso, non deve vergognarsi.

DI CALOGERO PUMILIA. 

Qualche tempo fa ho scritto del film di Aurelio Grimaldi “Il delitto Mattarella”, un’opera che riproponeva tutti i cliché di una sottocultura di sinistra. I dirigenti democristiani che ebbero un ruolo al tempo di quella tragica vicenda, venivano ritratti come collusi con la mafia o nel migliore dei casi avversari di Mattarella e del suo progetto di rinnovamento della vita pubblica siciliana. Apparivano vere e proprie macchiette, figure caricaturali che indossavano il tipico abito scuro o gessato dei piccoli borghesi “arrinisciuti” degli anni ’50 e si esprimevano in un volgare, pesante dialetto, l’italiano parlato solo da Mattarella.

Lunedì, sul primo canale della Rai, ho visto la prima puntata della mini serie di Marco Bellocchio “Esterno notte”, sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Diversa la levatura del regista e degli attori, migliore di conseguenza il prodotto finale, identico, imbarazzante il conformismo per una operazione falsa sul piano storico.

I due registi hanno realizzato due prodotti ispirati a quella impostazione seppellita ormai tanti anni fa dalla storia e che tuttavia continua ad essere riproposta, distorcendo la verità e proseguendo ad imbrattare la memoria di chi della propria storia nel suo complesso non deve vergognarsi.

La vicenda si svolge per intero all’interno delle stanze del potere, dove si muovono, come automi senz’anima, i protagonisti di quel tempo, tutti democristiani, riducendo così quel terribile evento a un episodio interno al partito di maggioranza. Non c’è nel film alcun riferimento all’angoscia che visse l’intero Paese nei cinquantacinque giorni di prigionia di Moro.

La telecamera esce dagli “antri” ministeriali e dalle cupe sedi del partito solo per inquadrare distrattamente la fuga di alcuni bambini da una scuola e per ritrarre, questa volta indugiandovi a lungo, quasi con evidente compiacimento, l’incontenibile entusiasmo, il festoso giubilo di molti universitari che manifestavano la propria solidarietà con le Brigate Rosse. Che, peraltro, restano sullo sfondo, ritratte quasi con tocco delicato, mai mettendo in luce la loro cupa, tragica volontà di morte. Al di là di Moro, peraltro egregiamente interpretato, tutti gli altri personaggi sono pavidi uomini di potere, manichini, mentecatti incapaci di cogliere e di vivere il dramma che li investiva.

Il ruolo dei comunisti, i più intransigenti difensori della linea della “fermezza”, della indisponibilità ad ogni tentativo di trattare con i brigatisti per salvare la vita di Moro, e per evitare che emergesse un qualche legame tra i terroristi e il partito – l’album di famiglia di Rossana Rossanda – viene ricordato appena con un cenno fugace. Eppure, attraverso Ugo Pecchioli concordarono con Francesco Cossiga, ministro degli Interni, tutte le iniziative da mettere in campo per trovare Moro e stabilirono la posizione da assumere riguardo alle sue lettere, che parvero segno di fragilità umana, risultato di una dettatura forzata, mentre contenevano indicazioni politiche e di metodo per risolvere la drammatica situazione.

Per i comunisti, che mai compaiono nel film, poche parole fuori campo. E non si fa nessun cenno di Sandro Pertini, di Ugo La Malfa, di Giorgio Almirante, di Alessandro Natta e di Enrico Berlinguer, che, con l’eccezione di Bettino Craxi, condivisero la linea della fermezza.

Naturalmente c’è Andreotti, un meccano senza vita, privo anche del consueto splendore luciferino con il quale viene ritratto, un piccolo ometto insaccato in un abitino stinto che manifesta i propri sentimenti, quei pochi che gli restano, vomitandosi addosso.

C’è Cossiga, un vanesio, equivoco, incapace e psicopatico, che mescola il dramma del momento con la sua difficile vita familiare, affrontata invece con estrema dignità, mai facendone parola con alcuno.

Ci sono i parlamentari democristiani, burattini costruiti tutti sullo stesso stampo: almeno sessantenni, panciuti, con i baffi, calvi o con i capelli bianchi, tutti assatanati di potere, senza un’idea, incapaci di un moto dell’anima, privi di emotività e ancor più di intelligenza.

C’è la scena, arbitrariamente ricostruita, dell’assemblea dei parlamentari riuniti nel febbraio del 1978 per ascoltare Moro che proponeva l’intesa con i comunisti per far nascere il governo di solidarietà nazionale.

C’ero anch’io, ma non sono stato ripreso.

Avevo poco più di quarant’anni, non ero né grasso né pelato e vi erano tanti altri ancor più giovani di me. Nessuno di noi avrebbe potuto fare la comparsa nel film, non corrispondendo allo stereotipo.

C’ero anch’io, vicepresidente dei deputati, e scrissi, presentandolo ai colleghi che lo approvarono quasi all’unanimità, il documento che accettava la proposta di Moro.

C’ero nei giorni del rapimento, quando alla impreparazione totale dello Stato, si sommarono errori e valutazioni che non consentirono, ammesso fosse stato possibile, di salvare Moro. E c’erano anche coloro che non avevano alcuna voglia di arrivare a quel risultato.

Io vissi, scorgendola anche in quasi tutti gli altri, l’angoscia, lo stupore, la frustrazione, il senso di impotenza che ci paralizzavano. Aspettammo un segnale che non arrivò, che speravamo arrivasse nel corso dei presidi notturni a piazza del Gesù, sede della Democrazia cristiana.

Vidi il dramma dell’ottimo Benigno Zaccagnini e di tantissimi altri non punti dalla tarantola del cinismo, semmai deviati dal diffuso, comune convincimento di dovere privilegiare la difesa e la tenuta delle istituzioni rispetto alla vita di Moro.

C’ero e fui partecipe di una vicenda tragica, affrontata e gestita con tanti errori da uomini e donne veri, non da macchiette inanimate, che servono a chi ha dovuto prendere atto che le proprie idee da tempo sono state clamorosamente smentite dalla storia e, non potendo più su di esse immaginare di costruire qualsiasi progetto, continua a tenerle al caldo e ad usarle per infangare quella dei loro antichi avversari.

È rimasta nella mia memoria la visione di un Papa al termine della sua vita, segnato anche umanamente da quella tragica vicenda e che a tutti noi, credenti o no, riuniti a San Giovanni, apparve come un’ancora di speranza, anche quando, o specialmente quando, quasi irato, contestò al Signore di non avere accolto la sua preghiera.

Maria Fida Moro in questi giorni ha accusato il regista di non avere rispettato la verità storica, riproponendo una frase del padre: “noi siamo diversi, noi vogliamo essere diversi dagli stanchi sostenitori di un mondo ormai superato”.

Per alcuni perdenti di successo, come al regista di questo film, la verità è quella e solo quella che conferma e tiene artificiosamente in vita le loro giovanili illusioni, dalle quali, malgrado le ripetute smentite, non sono mai riusciti a prendere le distanze.