Assolto da stupro perché la vittima “non urlò”. Per la Cassazione il processo è da rifare
TORINO. Una brutta storia di cronaca giudiziaria, una brutta storia la cui vittima è una donna. La Cassazione ha deciso che il processo è da rifare. Si è dovuto giungere fino al livello supremo di giustizia, quella della Cassazione. Un processo giunto in Cassazione dopo il ricordo del sostituto procuratore generale Elena Daloiso, che aveva sostenuto in aula l’accusa contro Raccuia, l’uomo accusato di violenza ma che era stato assolto in primo e secondo grado.
I fatti. Il processo aveva imputato Massimo Raccuia, soccorritore ed istruttore del 118 con l’accusa di aver violentato una collega, in una piccola stanza dell’ospedale Gradenigo di Torino utilizzata dai volontari nelle pause di riposo. Nel processo di primo grado la donna non era stata giudicata attendibile. Secondo i giudici “aveva detto basta, ma non aveva urlato”, non aveva “tradito emotività”. L’assoluzione Una sentenza che aveva fatto discutere: il giudice aveva addirittura stabilito di trasmettere gli atti in procura per procedere contro la vittima per di Raccuia ha fatto clamore.
In appello la donna, assistita dall’avvocato Virginia Iorio, era stata riascoltata, e aveva confermato tutto e questa volta era stata ritenuta pienamente credibile. Per i giudici non c’erano dubbi che la violenza sessuale fosse stata commessa e da lei subita.
Ma Raccuia, difeso dagli avvocati Vittorio Rossini e Cosimo Maggiore, era stato di nuovo assolto. La corte aveva sostenuto la tesi sulla “non procedibilità” del reato. In buona sostanza, mancava la querela; la volontaria non aveva sporto subito denuncia, quindi lui non era (di nuovo) condannabile.
Il ricorso in Cassazione. Il sostituto procuratore generale Elena Daloiso, che aveva sostenuto in aula l’accusa contro Raccuia, aveva fatto ricorso per Cassazione. Aveva puntato sul ruolo di “superiore” che Raccuia ricopriva all’interno della Croce Rossa. Nonostante si trattasse di un volontario, un ordine di servizio gli affidava un incarico di organizzazione del lavoro degli altri colleghi, era una sorta di coordinatore regionale, quindi la vittima era, di fatto, una sua sottoposta. E non aveva fatto subito denuncia anche perchè timorosa di questa sua situazione, scegliendo poi di sporgerla successivamente: una querela tardiva secondo i giudici del secondo grado.