ASSEMBLEA ECCLESIALE, MONS. MONTENEGRO: «IL SIGNORE CI CHIEDE DI TORNARE DALLA CHIESA ALLA STRADA CON LA FESTA NEL CUORE»
Di seguito l’Omelia che mons. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, ha tenuto nel corso della Celebrazione Eucaristica al termine dell’Assemblea diocesana in cui è stato consegnato il Piano Pastorale diocesano e la Lettera Pastorale.
“Per una felice coincidenza, non programmata – almeno da noi! – ma provvidenziale, celebriamo la nostra Assemblea Diocesana nei Primi Vespri della festa della Dedicazione della Basilica Lateranense. Questo accostamento – con il significato della festa in sé e con la ricchezza delle immagini che la Liturgia ci offre – ci consente, alle soglie del nuovo anno pastorale, di ripensare la nostra identità ecclesiale e di rilanciare il nostro impegno nella Chiesa e nel mondo, a servizio di Dio e del Vangelo, dell’uomo e della sua storia. Vorrei iniziare dal significato della festa. Celebrare la Dedicazione della Basilica Lateranense significa molto di più che commemorare il rito liturgico che nel lontano 324 ha consacrata al culto la chiesa principale della città di Roma.
La dedicazione, infatti, sottrae l’edificio alla dimensione soltanto materiale, per conferirgli una dimensione simbolica e farlo diventare luogo di quel culto in Spirito e Verità che Gesù richiede ai veri adoratori del Padre, al di là del tempio fatto di pietre e cemento e al di fuori delle sue strutture. Tanto più se questo tempio è quello che custodisce la Cattedra da cui il Vescovo di Roma presiede nella carità a tutte le Chiese del mondo e se questa basilica è considerata, pertanto, la madre di tutte le chiese. Celebrarne la dedicazione significa, allora, recuperare il valore di quell’unità che è, prima di tutto, desiderio di Gesù nella sua preghiera sacerdotale e, poi, bisogno e desiderio di ciascuno di noi in tutte quelle esperienze di divisione che ci rendono più poveri e ci fanno soffrire. Significa riconoscere che l’unità, per quanto ci diamo da fare, non può essere frutto di uno sforzo esclusivamente umano, perché il nostro carattere, i nostri sentimenti e i nostri risentimenti, i nostri giudizi e i nostri pregiudizi, i nostri interessi e i nostri egoismi ed egocentrismi, rendono difficile, se non addirittura impossibile, costruirla e, più ancora, ricostruirla. Dobbiamo riconoscerlo, con umiltà e franchezza. E, con un atto di fede e di speranza, dobbiamo credere che solo uniti a Cristo possiamo diventare una cosa sola, in modo che poi, con un atto di carità, frutto dell’azione del suo Spirito in noi, possiamo “superare” ciò che ci “separa”.
La Chiesa, in fondo, o è il luogo di un amore divino, o semplicemente non è. Questo ci ricorda la festa della Dedicazione della Basilica Lateranense e la celebrazione del legame di tutte le Chiese del mondo – compresa la nostra – al Santo Padre che ha in essa la sua cattedra. Ma c’è di più. Se la dedicazione ci fa passare dal piano materiale del tempio fatto di pietre a quello spirituale fatto di pietre vive, le nostre chiese devono diventare strumenti di liberazione del cuore, non gabbie protette della coscienza; devono diventare palestre di vita nuova, non palcoscenici di un culto formale; devono diventare spazi in cui le persone si incontrano tra loro e con Dio e permettono a Lui di incontrare ogni uomo, non centri commerciali in cui si può comprare il sacro per usarlo secondo i propri bisogni. Perdonatemi questi toni, volutamente provocatori. Dico queste cose – a voi e prima a me stesso – perché a volte anche nei nostri ambienti e nel nostro cuore si respira una certa religiosità che ancora non è diventata fede o è ancora fede immatura. E questa è l’occasione buona per compiere questo salto di qualità; lo stesso che i discepoli e le folle al seguito di Gesù, nell’icona della guarigione del cieco di Gerico, devono compiere, riconoscendo di essere ancora ciechi – pur pensando di vederci bene – se non sanno ancora vedere con gli occhi del Maestro e sentire con il suo cuore.
Ma cosa significa vedere con gli occhi del Maestro e sentire con il suo cuore? Cosa significa passare dalla cecità – forse anche inconsapevole – al vederci chiaro? E cosa significa essere Chiesa “estroversa” e rivolta al mondo, piuttosto che chiusa e aurtoreferenziale? Cosa racchiude quel «Coraggio! Alzati, ti chiama!» che deve diventare l’anima dell’annuncio del Vangelo e della proposta della fede? La Liturgia della Parola della festa odierna ci suggerisce tantissime risposte. Provo a proporvene alcune che mi sembrano più rilevanti e urgenti in vista del nuovo anno pastorale e in sintonia con il Piano Pastorale che vi ho appena consegnato. La simbologia della visione di Ezechiele contiene degli spunti molto significativi a riguardo. C’è il tempio e c’è l’acqua che esce dal tempio, la regione circostante e gli alberi che vi crescono. E in questi elementi è tracciata una vera e propria teologia della Chiesa e della storia, con una conseguente sfida “pastorale” per chi frequenta il luogo – sacro per definizione – in cui si incontra Dio (il tempio) e abita il territorio – sacro per vocazione – in cui si incontra l’uomo (la regione). I particolari del tempio ci aiutano a individuare le dimensioni della fede; quelli del territorio ci permettono di cogliere gli aspetti della vita che la fede deve raggiungere e trasformare. E tutto questo affinché la sacralità respirata nel tempio renda sacra l’esistenza vissuta nella regione.
La facciata del tempio guarda a oriente. Mi piace vedere in questo particolare un invito a comprendere quel che è stato definito “tramonto dell’Occidente” che descrive la crisi della coscienza europea di questo tempo post-moderno, svuotato di certezze e riempito di incognite, ricco di bisogni e povero di prospettive. Il Progetto Formativo Unitario, che guiderà i nostri passi in questo biennio, chiede di prendere coscienza di questa situazione di precarietà per aiutare gli uomini del nostro tempo – noi e tutti quelli che incontriamo nelle nostre strade – a riformulare quelle domande di senso che possono rendere ancora significative le risposte della fede. La nascita e la morte, il bene e il male, il dolore e la sofferenza… i grandi “perché” della vita, su cui in passato si è puntato tutto tanto da essere la base di scelte etiche significative, rischiano oggi di diventare merci di scambio o, tutt’al più, tabù di cui è meglio non parlare.
Ma proprio questi grandi “perché” della vita, che il “tramonto dell’Occidente”, con tutte le sue crisi e i suoi fallimenti, sta facendo riemergere con forza, possono e devono ancora diventare le occasioni di una “nuova evangelizzazione”, capace di annunciare la vita eterna, la santità della vita come via del bene e rimedio del male, la risurrezione come fine del dolore e della sofferenza, e così via. È l’acqua che esce da sotto la soglia del tempio. È questa possibilità di vita che può ancora dare fecondità all’aridità della storia. È la risposta che viene dall’alto, perché la vita che scorre sulla terra abbia ancora senso. La facciata del tempio che guarda a oriente e da cui esce l’acqua, mentre ci sentiamo coinvolti nell’arido “tramonto dell’Occidente”, ci ricorda che là dove l’uomo smarrisce le prospettive e perde le certezze, là Dio lo va a cercare per permettergli di tornare a guardare in alto e riprendere un cammino che sembrava senza vie di uscita. Ma la facciata del tempio è già all’esterno. E, come se non bastasse, l’uomo della visione conduce il profeta fuori dalla porta settentrionale e lo fa girare all’esterno, fino alla porta esterna rivolta a oriente.
In quest’altro elemento troviamo la conferma della Parola di Dio al bisogno di uscire fuori dalle nostre chiese per fare della strada il luogo proprio della nostra azione pastorale. Se il tempio ci trattiene, evidentemente qualcosa non funziona. Se ci butta fuori, nel senso più bello dell’espressione, compie la sua funzione. Se le nostre abitudini e le nostre strutture – buone quanto mai – ci fanno credere che sia «bello per noi stare qui», come per i tre apostoli nella Trasfigurazione, rischiamo di perdere il sapore della vita e gli odori della strada, ma soprattutto rischiamo di trattenere l’acqua che esce dal tempio. E invece il tempio non riesce a contenere quell’acqua, che trabocca e fuoriesce. Il profeta portato fuori per vedere i benefici dell’acqua che, insieme a lui, esce dal tempio, ci ricorda che è la strada il luogo in cui il Vangelo deve diventare vita. Ed è così, nella vita reale come nella visione profetica, che si possono vedere e raccogliere i frutti. L’acqua che esce dal tempio risana il mare dove arriva e feconda le sponde che attraversa. Anche qui, come nell’«Alzati!» rivolto al cieco di Gerico, c’è una potenzialità di risurrezione di cui la grazia di Dio è artefice, ma che passa attraverso l’impegno di una comunità che nel tempio impara e nella regione vive, nelle chiese ascolta e nel territorio annuncia.
Diventare cibo – come i frutti della visione – e medicina – come le loro foglie – significa fare nostra la logica della compassione e del dono, della prossimità e della gratuità, contro ogni logica di interesse o – peggio – di apatia. Sulla stessa lunghezza d’onda, nella cacciata dei venditori dal tempio, si pone il rapporto di Gesù con il luogo sacro e con coloro che lo frequentano, ma soprattutto con il tempo sacro e con coloro che lo vivono. Gesù è salito al tempio di Gerusalemme perché si avvicina la festa della Pasqua dei Giudei. Non è importante solo il rapporto con il tempio, ma anche quello con la festa. Serve per dare alla quotidianità la dimensione festiva dell’esistenza, per riscoprirne il senso che a volte perdiamo, presi dalla frenesia e dalla monotonia di ogni giorno. Nella coscienza del popolo di Dio la festa è l’occasione per dare al lavoro e, in generale, alle azioni dell’uomo la dignità umana che spesso le condizioni alienanti della vita fanno perdere di vista. Il settimo giorno, come il settimo anno e come il settimo anno di una settimana di anni (il giubileo), così come le feste che scandiscono la vita religiosa e sociale di Israele, servono per ricordarsi che la creazione appartiene a Dio, ma soprattutto che Dio ha liberato il suo popolo dalla schiavitù.
Se l’ esperienza della fede e la celebrazione della liturgia non hanno questa capacità di liberazione dell’uomo, di promozione della giustizia sociale, di difesa del bene della persona e della comunità, il cristianesimo si riduce a una teoria e l’annuncio del Vangelo resta arido. Se, poi, il tempo sacro della liturgia vissuto nello spazio sacro del tempio perde la sua qualità di rapporto con Dio in cui si apprendono le regole del rapporto fra gli uomini, lo stesso annuncio rischia di diventare controtestimonianza. Se il tempio durante la festa smette di essere casa e diventa mercato, anche la vita di ogni giorno finisce per lasciarsi regolare dalle leggi dell’economia piuttosto che dalla libertà dell’ amore. Se il nostro culto diventa esteriore e formale, se richiediamo i sacramenti per consuetudine e li diamo per dovere, se riduciamo la catechesi a un corso e la carità a un pacco spesa, forse è ora di capire che il Signore ci sta chiedendo altro. Accogliere il segno del tempio distrutto e ricostruito in tre giorni vuol dire imparare a dare la vita per i fratelli. Accettare di vedere i banchi dei nostri affari rovesciati vuol dire essere pronti a una conversione del cuore prima che delle strategie. Rinunciare a una religiosità fatta di scambi vuol dire lasciarci provocare da una fede improntata al dono libero e liberante. Forza! È un cammino impegnativo, ma avvincente. E soprattutto è ciò che il Signore ci sta chiedendo. Tornare dalla chiesa alla strada con la festa nel cuore. Portare nell’esistenza la gioia del Vangelo. Portarla a tutti, soprattutto a chi è rimasto ai bordi della strada e senza la luce della verità. E poi portare la vita – quella vera, incontrata e non soltanto immaginata o pensata – in chiesa, perché l’incontro con il Signore sia pieno e ci renda una cosa sola.
Così ho inteso sintetizzare la sfida e l’impegno della nostra Chiesa per questo nuovo anno pastorale che ormai tra qualche giorno cominceremo. Qui vi ho dato il progetto. Mi piace pensare il mio ministero episcopale in mezzo a voi secondo l’immagine dell’architetto che San Paolo ci suggerisce nella seconda lettura. Il vescovo, come l’architetto, pone il fondamento dell’edificio di Dio, che è Cristo. Ma se non c’è chi lavora, se non c’è un lavoro comune e ognuno lavora per i fatti suoi, il progetto non serve a nulla. A voi, a ciascuno di voi, auguro di lavorare con passione a questo progetto, perché il Signore, attraverso l’opera preziosa di ognuno, costruisca ciò che Lui stesso sta disegnando per noi.
Maria ci accompagni e ci sostenga.