QUANDO IL LAVORO NERO E… NORMALITA’
Pubblichiamo, grazie alla disponibilità della collega, un interessante reportage sull’utilizzo massiccio di lavoratori immigrati nelle campagne di Ribera. Marilisa Della Monica, brava collega di Agrigento, capo redattrice del giornale “L’Amico del Popolo” di Agrigento, ha realizzato un viaggio-inchiesta nella città delle arance, facendo emergere come il lavoro nero nelle campagne di Ribera sia visto come una “normalità”. L’interessante inchiesta è stata pubblicata su “L’Avvenire” e su “L’Amico del Popolo”.
«Volevamo braccia, sono arrivati uomini». È la frase con la quale lo scrittore svizzero Max Frisch, alla metà degli anni ’70, cercò di spiegare perché troppi connazionali fossero così ostili agli immigrati italiani, giunti nella loro Nazione. Frase di drammatica attualità che ho voluto utilizzare per dare un senso e una spiegazione a quello che ho visto e sentito, nei giorni di preparazione di questo articolo. Un viaggio in un settore, quello agricolo, fiore all’occhiello e motore dell’economia di alcune zone della nostra provincia, che è però ricco di zone grigie e che tali devono restare. Dopo i fatti di Vittoria, di Campobello di Mazara, senza dimenticare quelli di alcuni anni fa in Calabria, ho voluto capire se anche nella nostra terra lo sfruttamento nelle campagne esistesse o se questa fosse un’isola felice.
Attraversando, in un caldo pomeriggio di giugno, gli agrumeti, gli uliveti e i vigneti che costeggiano la strada che da Borgo Bonsignore conduce a Ribera, è lampante che i campi sono ben tenuti, che qui con l’agricoltura, in particolare con le arance, le famose “Navel”, le famiglie ci “campano”.
«Ribera – mi spiega il mio compagno di viaggio, l’operatore di Caritas diocesana, Federico Spagnesi – fonda la propria economia su un serbatoio costante di lavoratori precari per mantenere un livello di prezzi adeguati al mercato. Infatti, la filiera produttiva prevede tanti piccoli imprenditori che, uniti in Consorzi, hanno allacciato rapporti anche con la Coop nazionale. La manodopera per la raccolta delle arance – aggiunge Federico – è reclutata normalmente tra cittadini stranieri che da dicembre/gennaio cominciano a trasferirsi qui. Una parte meno importante dei lavoratori arriva già ad ottobre per la raccolta delle olive».
La prima tappa del mio viaggio è via Tevere. Non una vera strada, ma un grande cortile, tra degli edifici fatiscenti la cui costruzione non è stata ultimata, chiuso da un cancello. Dietro di esso due uomini. Dall’aspetto sembrano nordafricani, parlano tra loro animatamente. Gli edifici, anche se privi di finestre, porte, luce, acqua e gas sono abitati. Lo si comprende dalle coperte utilizzate come tapparelle di fortuna e dagli abiti stesi ad asciugare. Quello che colpisce è che via Tevere è racchiusa in un contesto di “normalità”. A destra e a sinistra di questo piccolo ghetto, abitazioni ben mantenute con tanto di gerani ai balconi e piante all’ingresso. Come se via Tevere fosse un buco nero, non esistesse.
«Qui – mi dice Federico – nel periodo della raccolta delle olive e delle arance abitavano molti dei migranti che lavoravano nei campi. Come vedi tutto è di fortuna».
Tutto è sotto la luce del sole, tutto accade tra la normalità del vivere quotidiano, come se via Tevere fosse da sempre lì con il suo carico di umanità invisibile. Per comprendere la realtà dei migranti che lavorano in agricoltura incontro le operatrici di Caritas cittadina. Nei locali, messi a disposizione dai padri vocazionisti, sorge, dal dicembre 2010, il Centro di solidarietà “La Palma” che opera anche grazie al contributo di Caritas diocesana Agrigento.
«Le molteplici richieste d’aiuto pervenute al Centro di ascolto da parte di cittadini stranieri – ci spiega una delle volontarie, Maria Teresa Fontana – hanno spinto la comunità ecclesiale a prendere coscienza della situazione e a dare vita a questo Centro di Solidarietà, punto di riferimento importante per i numerosi immigrati stagionali che da novembre a maggio approdano nel nostro comune alla ricerca di un lavoro. Qui ha sede il Centro di Ascolto cittadino e sono attivi i servizi di guardaroba, lavanderia, docce, pasto caldo». I servizi doccia, mensa e lavanderia nel mese di giugno vengono sospesi, riprenderanno ad ottobre, con l’arrivo dei migranti. «Da ottobre a dicembre 2016 – ci racconta Nardina Mangiacavallo, altra volontaria Caritas, addetta “ai numeri” – abbiamo avuto 160 ospiti, da gennaio a fine maggio 2017 il loro numero è calato a 110. Abbiamo fornito 6.700 pasti in 7 mesi».
Per accedere ai servizi offerti da Caritas Ribera è necessario essere muniti di un tesserino di riconoscimento, con foto e con un numero di codice progressivo, rilasciato dal Centro di Ascolto. Dei 217 tesserini rilasciati lo scorso anno, 78 erano di soggetti sprovvisti di documento di riconoscimento.
«Potrebbero averlo dimenticato nella località dove risiedono – ci dice Nardina – o potrebbero anche essere giunti nelle nostre coste con i tanti sbarchi “fantasma” che si registrano tra Siculiana e Cattolica Eraclea». Giovani, per la maggior parte provenienti dalla Tunisia, che giungono a Ribera attraverso un tam tam sui social network e/o contatti telefonici direttamente con i datori di lavoro, se già hanno lavorato qui, o attraverso connazionali stabilmente residenti a Ribera.
Quello che però mi colpisce è la “normalità” con cui viene visto il lavoro in nero nelle campagne. «Noi non facciamo opera di sensibilizzazione nel territorio – ci spiega una volontaria Caritas – e poi vengono pagati bene, 40 euro al giorno!». Poco più di 4 euro all’ora, tenuto conto l’orario di lavoro che generalmente è dalle 7 del mattino alle 16 del pomeriggio e, nei casi in cui il datore di lavoro fosse più sensibile, con un panino gentilmente offerto insieme a dell’acqua. Tutto questo accade ogni anno nelle campagne riberesi nella più totale normalità.
Federico che mi vede un po’ turbata dopo l’incontro con le volontarie Caritas mi spiega un po’ meglio la situazione e perché molti lavoratori decidano di venire proprio a Ribera per lavorare nei campi. «Sono quattro – mi spiega Federico, durante il tragitto che ci porterà negli alloggi usati quest’anno dai migranti “usati” nei campi – i motivi che spingono questi lavoratori a venire a Ribera. Il primo è la facilità con cui è possibile reperire lavoro ritenuto ben pagato». Comprendo che non ci sono “caporali” a cui cedere una percentuale di quanto guadagnato. Sono direttamente i piccoli proprietari terrieri a scegliere quotidianamente chi utilizzare nelle loro campagne passandoli in rivista nelle zone in cui da sempre si scelgono quanti dovranno lavorare. «Secondo motivo – prosegue Federico – la possibilità di trovare riparo notturno all’interno delle abitazioni di via Fani e via Tevere che, nonostante siano vietate all’accesso in quanto pericolanti e in attesa di demolizione, sono occupate durante il periodo autunnale e invernale. Terzo motivo la presenza di una Caritas cittadina che provvede a elargire vestiario, contributi economici per gli spostamenti, un servizio di mensa serale quotidiano, di lavanderia e di doccia. Quarto motivo quello che viene percepito come “tolleranza” delle forze dell’ordine. I migranti – mi spiega Federico – hanno poco timore che le forze dell’ordine possano attivare identificazioni, rimpatri, sgomberi. In quest’ultimo caso, nonostante la partecipazione interforze che ha visto la presenza di Nuclei antiterrorismo e antisommossa provenienti da Catania, gli sgomberi si sono rivelati inefficaci in quanto dopo circa una settimana, per stessa ammissione della Tenenza dei carabinieri di Ribera e della Polizia locale, la popolazione straniera ha rioccupato gli stessi alloggi».
Giungiamo in Largo Martini di via Fani, un agglomerato di case popolari abbandonate perché risultate costruite con cemento depotenziato che dovrebbero già essere state abbattute e sostituite da altre ed invece restano ancora lì a dare rifugio a quanti cercano un riparo notturno. Anche qui la stessa situazione di via Tevere. Mancanza totale di servizi essenziali. Per accedere a queste abitazioni di proprietà dell’istituto Case Popolari, sono stati praticati dei buchi nei muri con cui si era cercato di impedire l’acceso e poi richiusi con porte di fortuna a cui sono state applicate delle catene con lucchetti. Ci sono ancora degli ospiti in alcuni degli appartamenti. Lo capiamo dalle coperte messe anche qui a schermare i balconi e le finestre, dalle piccole discariche nei cortili e da alcuni uomini che bevono birra accanto al vicino campetto. Tutto intorno è degrado. Mi sembra di rivedere alcune delle strade di Beirut che portano ancora i segni dei bombardamenti di un conflitto durato decenni, ma qui non c’è stata nessuna guerra, ma solo l’indifferenza di tanti.
Federico nel periodo in cui gli alloggi pericolanti erano disabitati ha avuto modo di incontrare alcuni degli ospiti che hanno trovato qui riparo ed hanno anche vissuto sei mesi in condizioni disumane. «I cittadini stranieri incontrati – mi racconta – alternano momenti di forte contestazione e rivendicazione della propria dignità umana, ad atteggiamenti di opportunismo. Infatti, da un lato la loro condizione è vissuta con un misto di rabbia e rassegnazione che sfocia in un’autentica costruzione dell’anti-occidentalismo: l’ipocrisia di una società occidentale che si erge a promotrice di diritti umani e della giustizia sociale e poi sfrutta i lavoratori nelle campagne. Quando ho tentato di sviluppare un ragionamento più articolato sulla loro condizione di vita, tirando anche in campo la scelta di intraprendere il viaggio ed entrare illegalmente in Italia, le dichiarazioni iniziano a farsi meno nette e più incentrate sul grave errore di giudizio da loro fatto reputando attendibili le storie sull’UE che presto si sono trasformate in illusioni. Ho notato – prosegue Federico – nei tanti ragazzi che ho incontrato una profonda frustrazione accompagnata dalla percezione di inutilità della
loro vita che viene mitigata soltanto dalla possibilità di ottenere un minimo di guadagno con il lavoro di raccolta. Tale paga diventa dunque semplice ammortizzatore di una tensione che esula da Ribera stessa e che cammina sulle gambe dei cittadini stranieri».
Mi riprometto di approfondire anche la situazione nel Canicattinese e nel Licatese. Per adesso mi basta Ribera. Con la sconfitta che ne subiamo come Chiesa per non avere avuto la capacità di far comprendere che pagare 4 euro all’ora non è da seguace di Cristo; come Stato civile in cui l’illegalità è la via più semplice per permettere alle piccole imprese di poter sopravvivere; come cittadinanza attiva che vede nell’illegalità e nello sfruttamento del più debole la “normalità”. Ma ho visto anche un flebile barlume di speranza e che questo sfruttamento non dichiarato ma applicato finisca. Volevamo braccia. Sono arrivati uomini.
Marilisa Della Monica