TENTATO FURTO A ING. DI GIOVANNA: LA SENTENZA DI CONDANNA PER CALOGERO RAGUSA E’ DEFINITIVA. ECCO LA MOTIVAZIONE

Nella sentenza della Cassazione la descrizione dei fatti del tentato furto all’abitazione di Giuseppe Di Giovanna. Coinvolti Lorefice, Annunziata e Piombino.

E’ divenuta definitiva per Calogero Ragusa, cinquantasettenne saccense, la condanna per tentato furto a danno dell’ex ingegnere capo del Comune di Sciacca, Giuseppe Di Giovanna. La motivazione della Corte di Cassazione è stata depositata lo scorso 4 aprile. La pena che deve scontare Ragusa è di 10 anni in continuazione con la sentenza della Corte di Appello del 20 giugno del 2006. La vicenda relativa al tentato furto, all’estorsione e all’attentato incendiario nei confronti dell’ingegnere Giuseppe Di Giovanna si chiude anche con la condanna definitiva a 8 anni e 6 mesi nei confronti dell’architetto Giorgio Lorefice. L’avvocato del Ragusa, Paolo Imbornone, aveva proposto ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello del 21 dicembre 2011, lamentando “l’erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione laddove la corte di merito aveva ritenuto di qualificare la condotta addebitata al Ragusa di tentativo, invece che desistenza non punibile”. Nel ricorso si evidenziava che “dagli atti processuali e dalle stesse dichiarazioni del coimputato Annunziata era emerso che il Lorefice ed il Piombino si erano limitati ad entrare nel giardino del Di Giovanna, senza portare alcun attrezzo idoneo ad aprire la cassaforte e a manomettere l’impianto d’allarme della villa. Pertanto tale condotta non aveva né i caratteri della univocità, né quelli della idoneità. In ogni caso, se era vero che i predetti due componenti del gruppo avevano scavalcato il muro di cinta della casa del Di Giovanni, era anche vero che il ricorrente e l’Annunziata non li avevano seguiti, in tal modo manifestando disimpegno dall’atto delittuoso e chiara desistenza”. A tale osservazione, la quarta Sezione di penale della Corte di Cassazione, presieduta dal magistrato Francesco Marzano, sottolinea che “come osservato dal giudice del merito, l’azione delittuosa non fu portata a termine in quanto, una volta penetrati nel giardino, i ladri si accorsero della presenza dl persone nell’abitazione e, quindi, si allontanarono dal luogo. Pertanto la scelta di abbandonare il proposito criminoso non fu spontanea, ma il frutto di circostanze estranee alla volontà degli agenti. Il Ragusa ebbe a concorrere alla ideazione ed organizzazione del delitto; svolse appostamenti ed ebbe a controllare la villa dall’alto; inoltre la sua partecipazione attiva è attestata dalla circostanza che sia il 29 ottobre che il 30 ottobre, con la sua scheda telefonica furono effettuate le telefonate mute finalizzate a controllare l’immobile preso di mira”. La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile, dunque, il ricorso del Ragusa. Nella sentenza di Cassazione, vengono riportati anche i fatti. Tra questi, in particolare quello del luglio 2001 quando i coniugi Di Giovanna ricevevano una telefonata da parte di tale “Raso” che, ricordando i fatti di tredici anni prima, e lo minacciava. Inoltre, riporta la Corte di Cassazione, nel corso delle indagini veniva acclarato che tale telefonata era stata effettuata dal Ragusa, d’accordo con l’ideatore del piano, il Lorefice. Giuseppe Di Giovanna nell’ottobre 1988 era stato vittima di una estorsione ad opera di ignoti, i quali avevano richiesto il pagamento della somma di 500 milioni di lire. Tredici anni dopo i fatti – riporta la sentenza della Cassazione- l’amico Lorefice, sfruttando il trauma a cui era stato soggetto il Di Giovanna, aveva avuto l’idea dl far credere a quest’ultimo che gli estorsori si erano fatti vivi nuovamente. Poi il tentato furto e poi ancora l’attentato incendiario.

Questa la sentenza della Cassazione.

SENTENZA
Sul ricorso proposto da
RAGUSA Calogero, nato a Burglo —AG- il 4\5\1956
avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo del 21\12\2011   n. 3588/10
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Fausto Izzo ;
udite le conclusioni del Procuratore Generale dr. Eduardo Vittorio Scardaccione, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito l’Avv. Paolo Imbornone, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

RITENUTO in FATTO
1.    Con sentenza del 11\2\2010 il G.U.P. del Tribunale di Sciacca condannava Ragusa Calogero alla pena dl legge per il delitto di tentato furto, in concorso con altri, di beni di valore custoditi nell’abitazione di Di Giovanna Giuseppe (acc. in Sciacca il 29-30\10\2001).
2.    Con sentenza del 21\12\2011 la Corte di Appello di Palermo confermava la pronuncia di condanna e, riconosciuta la continuazione esterna con i fatti giudicati con la sentenza della Corte di Appello di Palermo del 20\6\2006 (irrevocabile il 5\6\2007), riduceva la pena per il tentato furto ritenuto in continuazione e rideterminava la complessiva pena in anni 10 di reclusione ed € 1.700= di multa.
Osservava la Corte dì merito che la responsabilità dell’imputato emergeva dagli atti del presente processo e da quelli assunti nel processo per il quale era già stato giudicato per una vicenda estorsiva.
3.    Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, lamentando la erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione laddove la corte di merito aveva ritenuto di qualificare la condotta addebitata al Ragusa di tentativo, invece che desistenza non punibile.
Invero dagli atti processuali e dalle stesse dichiarazioni del coimputato Annunziata era emerso che il Lorefice ed il Piombino si erano limitati ad entrare nel giardino, senza portare alcun attrezzo idoneo ad aprire la cassaforte e a manomettere l’impianto d’allarme della villa. Pertanto tale condotta non aveva né i caratteri della univocità, né quelli della idoneità. In ogni caso, se era vero che i predetti due componenti del gruppo avevano scavalcato il muro di cinta della casa del Di Giovanni, era anche vero che il ricorrente e l’Annunziata non li avevano seguiti, in tal modo manifestando disimpegno dall’atto delittuoso e chiara desistenza.

CONSIDERATO in DIRITTO
3.    Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile
3.1. Va premesso che il delitto per cui si procede (di cui agli artt. 56-624 bis c.p. aggravato dalla recidiva reiterata infraquinquennale, commesso il 30\10\2001) non è prescritto.
Infatti secondo la normativa previgente alla legge “Cirielli”, tenuto conto della pena edittale di anni 6 (p.b. anni 4 aumentata della metà per la recidiva), il termine era di anni 15, non ancora maturato alla data della sentenza di appello.
Applicando la nuova disciplina, il termine di prescrizione è dl anni 11, mesi 1 e giorni 10 (p.b. anni 4, aumentata di due terzi, per la recidiva reiterata infraquinquennale ad anni 6 e mesi 8 ; aumentata di ulteriori due terzi, ai sensi dei secondo comma dell’art. 161 c.p. per le intervenute interruzioni della prescrizione).
Il che porta la maturazione del termine alla data del 10\12\2012, successiva alla sentenza di appello e successiva anche alla presente sentenza, tenuto conto del periodi di sospensione per istanze dl rinvio di udienze, da ultimo dal
12\7\2011 al 21\9\2011 per impedimento.   

3.2. Ciò premesso va osservato che il giudice di merito è giunto alla pronuncia di condanna del Ragusa, sulla base della valutazione delle seguenti circostanze
– la vittima, Giuseppe Di Giovanna, era ingegnere capo dell’Ufficio tecnico del Comune di Sciacca, nonché amico di Lorefice Giorgio, con il quale attraverso le mogli, era socio In attività imprenditoriali;
– nell’ottobre 1988 Di Giovanna era stato vittima di una estorsione ad opera di Ignoti, i quali avevano effettuato telefonate estorsive, a nome di un sedicente “Raso”, e con le quali veniva richiesto il pagamento della somma di 500 milioni di lire;
– in tale contesto temporale, la società della moglie aveva patito un attentato;
– tredici anni dopo i fatti, l’amico Lorefice, sfruttando il trauma a cui era stato soggetto il Di Giovanna, aveva avuto l’idea dl far credere a quest’ultimo che gli estorsori si erano fatti vivi nuovamente;
– infatti nel maggio 2001, i coniugi Di Giovanna subivano un attentato presso la loro abitazione ove veniva fatta scoppiare una bomba artigianale;
– nel luglio 2001 ricevevano una telefonata da parte di tale “Raso” che, ricordando i fatti di tredici anni prima, lo minacciava;
– nel corso delle indagini veniva acclarato che tale telefonata era stata effettuata dal Ragusa, d’accordo con l’ideatore del piano, il Lorefice;
– ignaro del piano criminoso, il Di Giovanna aveva chiesto l’aiuto dell’amico Lorefice, per assumere informazioni sulla vicenda ed eventualmente contattare le persone coinvolte;
– in tale contesto il Lorefice l’aveva fatto incontrare con il Ragusa, il quale però riferiva di non avere alcuna notizia;
– dopo pochi giorni una nuova telefonata del sedicente “Raso” gli intimava di pagare 200 milioni di lire; somma che veniva consegnata agli estorsori tramite il Lorefice nel settembre 2001;
– nel corso delle indagini relative a tali fatti, veniva sentito tale Annunziata Vito, dipendente del Lorefice presso un autolavaggio, il quale riferiva che quest’ultimo lo aveva reclutato, unitamente al Ragusa e tale “Enzo Palermo” (identificato in Piombino Vincenzo), per effettuare un furto presso l’abitazione del Di Giovanna;
– il Lorefice aveva dato precise indicazioni sui valori custoditi in casa e sulla posizione della cassaforte;
– avevano fatto, pertanto servizi di appostamento e telefonate mute per monitorare la casa; alcune ditali telefonate erano state effettuate utilizzando una carta prepagata in uso al Ragusa;
– la notte del 29-30 ottobre 2001 erano passati all’azione, in particolare Lorefice e Piombino avevano saltato il muro di cinta della villa penetrando nel giardino, mentre gli altri due partecipi controllavano la villa dall’alto di via Allende; imprevedibilmente avevano visto che nella casa era presente il figlio e, pertanto, non avevano portato a termine il proposito criminoso.
La Corte di merito, valutato il materiale probatorio raccolto, con coerente e logica motivazione, non vulnerata da manifeste illogicità, ha ritenuto realizzato il delitto contestato, confermando la pronuncia di condanna.
 
3.3. La difesa dell’imputato ha lamentato la erronea applicazione della legge, per non avere il giudice di merito riconosciuto la desistenza non punibile del Ragusa.
La censura è manifestante infondata.
Va premesso che questa Corte di legittimità, con costante giurisprudenza, ha precisato che “La desistenza dall’azione, per spiegare la sua efficacia e condurre all’impunità, non richiede necessariamente una spinta psicologica spontanea dl autentico pentimento, ma deve presentare il carattere della volontarietà libera ed autonoma, suggerita da motivi di diversa natura e non imposta dall’intervento di fattori estranei all’agente, che rendono irrealizzabile la prosecuzione dell’attività diretta all’attuazione del fine antigiuridico” (Cass. Sez. 2, Sentenza ii. 12309 del 03/04/1987Ud. (dep. 04/1211987) Rv. 177181; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 181 del 09/04/1981Ud. (dep. 13/01/1982) Rv. 151533; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5037 del 08/04/1997Ud. (dep. 29/05/1997) Rv. 207647).
Nel caso di specie, come osservato dal giudice dl merito, l’azione delittuosa non fu portata a termine in quanto, una volta penetrati nel giardino, i ladri si accorsero della presenza dl persone nell’abitazione e, quindi, si allontanarono dal luogo. Pertanto la scelta di abbandonare il proposito criminoso non fu spontanea, ma il frutto di circostanze estranee alla volontà degli agenti.
Né può dirsi che la desistenza del Ragusa si configuri in ragione della diversa condotta tenuta ed, in particolare perché non fu uno dl quelli che ebbero a scavalcare il muro di cita.
Infatti, come evidenziato dal giudice dl merito, il Ragusa ebbe a concorrere alla ideazione ed organizzazione del delitto; svolse appostamenti ed ebbe a controllare la villa dall’alto; inoltre la sua partecipazione attiva è attestata dalla dalla circostanza che sia il 29 ottobre che il 30 ottobre, con la sua scheda telefonica furono effettuate le telefonate mute finalizzate a controllare l’immobile preso dl mira. Pertanto la sua condotta coerentemente è stata ritenuta aver superato la soglia della univocità ed idoneità degli atti, senza la presenza di alcuna condotta spontanea dì desistenza, considerato che l’abbandono della consumazione dell’attività criminosa fu dettato dalla imprevedibile presenza in casa del figlio del proprietario della villa.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 dei 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in euro 1000,00 (mille).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00= (mille) in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 18 dicembre 2012   

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