TRATTATIVA STATO-MAFIA: A GIUDIZIO TUTTI GLI IMPUTATI
Il gup di Palermo Pier Giorgio Morosini ha rinviato a giudizio tutti i dieci imputati dell’udienza preliminare sulla trattativa Stato-mafia. Sotto accusa ex ufficiali del Ros, capimafia, Massimo Ciancimino, l’ex senatore Marcello Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino.
Il processo inizierà il 27 maggio. Sul banco degli imputati Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, l’ex ministro Nicola Mancino, il senatore Pdl Marcello Dell’Utri e gli ex vertici del Ros dei carabinieri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni, e l’ex colonnello Giuseppe De Donno. Primo verdetto sull’inchiesta dei magistrati di Palermo che hanno messo sotto accusa capimafia e uomini delle istituzioni per un dialogo segreto che sarebbe avvenuto fra il ’92 e il ’93, per fermare le stragi di Cosa nostra.
“Gli imputati hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato Italiano e in particolare del governo della Repubblica”: è questa l’accusa per i mafiosi e gli uomini delle istituzioni, mossa dal pool che fino a ottobre è stato coordinato dall’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, composto dai sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Solo l’ex ministro Mancino risponde di falsa testimonianza. Ciancimino è accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro.
Questo l’impianto accusatorio degli investigatori e sintetizzato da La Repubblica.
Mannino. Nell’atto d’accusa dei pm, l’ex ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, Calogero Mannino, è il primo protagonista: sarebbe stato lui ad avviare la trattativa con i vertici di Cosa nostra, all’inizio del ’92, perché temeva di essere ucciso. Avrebbe rassegnato le sue preoccupazioni al maresciallo Giuliano Guzzelli, che pur non facendo parte dei reparti investigativi dell’Arma era in ottimi rapporti con l’allora comandante del Ros Antonio Subranni.
Mori e De Donno . Dopo l’allerta di Mannino, sarebbero stati i carabinieri del Ros ad avviare il dialogo segreto fra Stato e mafia, tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino: l’allora vice comandante del raggruppamento, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno iniziarono ad incontrare riservatamente Ciancimino. Il figlio dell’ex sindaco, Massimo, che dal 2008 collabora con i magistrati, sostiene che suo padre avrebbe fatto da tramite fra gli ufficiali dell’Arma e il vertice di Cosa nostra. I carabinieri hanno invece sempre negato la trattativa, sostenendo che il loro intento era solo quello di far collaborare con la giustizia Vito Ciancimino. Mori sostiene inoltre di aver incontrato l’ex sindaco solo dopo la strage Borsellino, del luglio 1992. Secondo Ciancimino junior, invece, i primi incontri dell’ufficiale col padre sarebbero stati già a giugno.
Riina. Il capo di Cosa nostra avrebbe gestito la trattativa Stato-mafia, tramite Vito Ciancimino, recapitando un “papello”, ovvero un foglio con alcune richieste allo Stato: l’abolizione del 41 bis, la revisione dei processi e della sentenze, il via libera alla dissociazione anche per i mafiosi. Secondo i pm di Palermo, il papello sarebbe stato consegnato da Riina a Vito Ciancimino, tramite un intermediario, il medico del capo di Cosa nostra, Antonino Cinà. E attraverso Ciancimino il documento sarebbe finito nelle mani dei carabinieri, che però hanno sempre negato di averlo ricevuto. Racconta il pentito Giovanni Brusca che nel giugno 1992, Riina disse che la trattativa doveva essere accelerata, “attraverso un colpetto”. E fu ucciso Paolo Borsellino, che probabilmente aveva scoperto il dialogo fra Stato e mafia.
Mancino. L’ex ministro dell’Interno è accusato di falsa testimonianza e non di attentato a un corpo politico, come tutti gli altri indagati. L’ex ministro della giustizia Claudio Martelli sostiene di avergli detto dell’iniziativa del Ros di avviare un colloquio con Ciancimino. “Gli chiesi di attivarsi per impedire quei contatti”, ha ribadito anche di recente Martelli. Mancino nega di aver mai parlato con Martelli del Ros e di Ciancimino. Secondo la Procura di Palermo restano misteriosi i motivi per cui Mancino sostituì all’improvviso al Viminale Vincenzo Scotti, proprio nei giorni della trattativa Stato-mafia, a fine giugno 1992. La Procura ritiene che Scotti fosse per la linea dura contro i boss. Contro Mancino, anche le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca: “Riina mi disse che Mancino era il terminale ultimo della trattativa”.
Provenzano. Dopo l’arresto di Totò Riina, catturato dal Ros nel gennaio 1993, i boss di Cosa nostra avrebbero proseguito la trattativa Stato-mafia con l’altro capo corleonese, Bernardo Provenzano, che con Vito Ciancimino ha sempre avuto un rapporto privilegiato. Ma anche Ciancimino, intanto, era finito in cella, dal dicembre 1992. Secondo il racconto di Massimo Ciancimino, il nuovo intermediario di Cosa nostra sarebbe stato Marcello Dell’Utri. Nel 1993, fra maggio e luglio, i mafiosi tornarono a far sentire le proprie richieste attraverso le bombe, scoppiate a Roma, Milano e Firenze, che fecero 10 morti. Al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fu imposto un altro direttore, Adalberto Capriotti, al posto di Nicolò Amato, e iniziarono strane manovre per alleggerire il carcere duro ai mafiosi. Provenzano fu poi arrestato nell’aprile 2006: secondo i pm, il boss sarebbe stato protetto dal generale Mori, che per questa ragione è sotto processo a Palermo per favoreggiamento.
Dell’Utri. Arrestato Ciancimino, i boss avrebbero avuto un altro referente nei palazzi delle istituzioni: l’attuale senatore Pdl Marcello Dell’Utri. Il ruolo di Dell’Utri sarebbe proseguito nel 1994, quando Silvio Berlusconi divenne presidente del Consiglio. Scrivono i pm: “I capimafia Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca prospettarono al capo del governo in carica Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano (deceduto) e di Marcello Dell’Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti all’associazione Cosa nostra (tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali e il trattamento penitenziario). Ponendo l’ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle istituzioni”.
L’inchiesta bis
Nell’ambito di un’inchiesta parallela, l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso è accusato di false dichiarazioni al pubblico ministero. I magistrati di Palermo gli contestano di aver detto il falso a proposito della mancata revoca di 400 provvedimenti di 41 bis, nel novembre 1993. L’ex Guardasigilli ha sempre detto di aver preso questa scelta in solitudine. La Procura di Palermo sostiene invece che così non fu dopo aver ritrovato una nota dell’allora direttore del Dap, Adalberto Capriotti, che nel giugno 1993 consigliava a Conso di allegerire il carcere duro per i mafiosi, al fine di creare un clima “più distensivo nelle carceri”. Anche Capriotti è indagato per false dichiarazioni al pubblico ministero, ma la posizione sua e quella di Conso andranno a giudizio solo dopo la conclusione del processo principale.