1768 giorni di carcere, di giustizia, di umiliazioni e speranza

EDITORIALE DI CALOGERO PUMILIA 

768 giorni sono stati quelli trascorsi in carcere da Totò Cuffaro. “1768 giorni” è il titolo del documentario di Marco Gallo, proiettato di recente in un cinema palermitano. Questo numero indica il tempo assegnato dalla giustizia all’ex presidente della Regione per scontare i reati che gli sono stati attribuiti e chiudere così il conto con lo Stato e con la società.

Molti o pochi sono stati calcolati da coloro ai quali la nostra Costituzione affida la funzione di applicare le leggi. Sono stati evidentemente tanti per chi li ha contati in una cella, pochi per chi avrebbe voluto un castigo a vita da continuare a scontare, magari fuori dal carcere, mantenendo il segno indelebile della colpa che nella civiltà giuridica, dai tempi di Beccaria, le nostre istituzioni non prevedono.

I tratti del lavoro cinematografico, mi è parso si riconducano in prevalenza a tre questioni: il riferimento ripetuto al valore delle istituzioni da rispettare, ovviamente allorché ti offrono l’opportunità del potere con i suoi privilegi o quando ti chiedono di pagare il conto per scelte ritenute difformi a quei valori. In secondo luogo c’è la forte denuncia di un sistema carcerario che, alla privazione della libertà, aggiunge una condizione di vita disumana, lontanissima dall’obbiettivo della rieducazione e della reintegrazione nella società.

In effetti la pena si concreta nella separazione dal mondo esterno di chi ha violato le leggi, a tranquillizzare chi è fuori ed indifferente. Indifferente perfino al tragico numero di suicidi che in quella realtà avvengono. Non ci si indigna neppure di fronte ad aspetti grotteschi e feroci come quelli del diniego a Cuffaro del magistrato di sorveglianza di vedere il padre sul letto di morte o di quello d’incontrare la madre con la motivazione che le condizioni di salute mentale della stessa non avrebbero permesso un dialogo con il figlio.

Infine il documento di Marco Gallo indugia sulle iniziative di Cuffaro in Burundi nell’ospedale realizzato dalla Regione durante il suo mandato, evidenziando le tragiche condizioni di chi vive in quella parte del mondo, del quale sentiamo il grido solo quando ci arriva da vicino e minaccia o ci appare minacciare le nostre comodità.

Con buona sapienza, il film non vuole essere agiografico, ché anzi evidenzia e riconosce gli errori del protagonista. Tuttavia, di lui ripropone per intero la prorompente umanità, la capacità di rapportarsi con gli altri, il vero e proprio trasporto per tantissime persone che, negli anni, Cuffaro ha conosciuto, toccato, baciato.

La politica, che pure pensò come un progetto alto, talora si è trasformata in qualcosa che è proprio della nostra terra, è divenuta una ragnatela d’intrecci personali, di rapporti che non sempre gli hanno lasciato la possibilità di discernere, di sottrarsi, trasformandosi in un uso clientelare delle istituzioni, nel “cuffarismo” o nel “cuffaresimo”, come egli stesso preferisce si chiami quel “fenomeno”. Ha avuto certamente un progetto, un’idea alta della funzione dell’istituto autonomistico, una visione d’insieme e tutto ciò nel tempo si è scheggiato e frammentato, talora è apparso come di natura familistica.

Cuffaro è stato l’ultimo esponente di una generazione che ha conosciuto la fine della prima Repubblica e del sistema dei partiti sul quale per cinquant’anni si è retta. Ha interpretato ruoli importanti quando già la generazione precedente alla sua, quella di chi scrive, aveva contribuito o assistito in modo inerte alla conclusione di una grande storia. Della Democrazia cristiana egli conobbe la fase finale e comunque alla sua storia e alla sua cultura, quella dei cattolici, è rimasto fortemente legato.

Quella storia può riprendere? Egli ci crede con determinazione apprezzabile. Per riuscirci, lo ha detto con qualche ironia alla conclusione della proiezione, aspetta che Sturzo, del quale è in corso il processo di beatificazione, faccia un miracolo.

Che avvenga o no quell’evento sovrannaturale, e dovrebbe peraltro riuscire a valicare lo Stretto per evitare che la “Nuova Democrazia cristiana” resti confinata nel recinto isolano e parte minore della maggioranza di destra, chi ha pagato il conto con la giustizia, ritengo abbia pieno diritto ad impegnarsi.

Nel film si vede a lungo Totò correre nel cortile del carcere. Correndo vuole evidentemente andare oltre quelle mura e vuole anche smaltire con il sudore, gli errori, consapevoli o no, che lì l’hanno portato. Corre poi anche per le vie polverose dell’Africa per affermare la volontà di trasformare l’astratta, facile solidarietà verbale in gesti concreti. Anche lì, toccando le persone, stando in mezzo a loro, abbracciandole e baciandole.