“Il vizio delle parole”: i racconti della domenica di Bia Cusumano

                                                                               Il cuore nel palmo

«Un passaggio più immediato ci sarà», pensò.

Per visitare il Cretto di Burri, a Gibellina, Matteo aveva attraversato mezza Italia. Il suo caporedattore lo aveva quasi pregato: «Scrivimi un pezzo dei tuoi». Non poteva dirgli di no, anche se di grilli per la testa ne aveva parecchi. Il suo matrimonio era naufragato da un pezzo. E poi c’era il dramma di suo figlio, affetto dalla sindrome di Down.

«Semplicemente un fallito».

Se lo diceva sempre più spesso, era una specie di litania. Quarantacinque anni suonati, eppure fino ad allora solo disastri. Nessuna stabilità. Né lo aiutava la conta quotidiana delle medaglie – una laurea con il massimo dei voti, un master all’estero, il mondo rivoltato come un calzino – che serviva solo a montare l’onda della sua frustrazione. E poi quel colpo di fulmine improvviso con la giornalista che chiamava l’illustre, le nozze precipitose – perché aspettare? Non era concepibile per uno come lui – e l’arrivo di Dario, il figlio che aveva sempre desiderato avere. La gioia però era durata poco. La malattia del loro bimbo era stata un fulmine che gli aveva squarciato il petto. Ma Dario era speciale. Il vero problema era l’illustre, che non voleva farsene carico.

«Perché non lo affidiamo a una struttura per bambini come lui? Non possiamo sacrificare la nostra vita per un figlio down, significherebbe non averne più una».

Non contenta, aveva rincarato la dose.

«Non me la sento, non farmene una colpa. Forse un figlio nemmeno lo volevo. È successo, e non me la sono sentita di abortire. Andremo a trovarlo tutti i weekend, te lo prometto. Ma cerca di capire: già è difficile con un figlio normale…»

Aveva detto proprio così e a Matteo era bastato. Così aveva preso Dario sulle spalle ed era tornato a casa sua, al Sud. Gli stava bene: lui suo figlio non lo avrebbe rinchiuso in una casa per bimbi non normali. E poi Dario era di una dolcezza sconfinata. Ogni suo sorriso seppelliva qualsiasi velleità di carriera e lo ripagava delle sofferenze causate da una storia, quella con l’illustre, senza futuro. Aveva deciso di stare dai suoi perché una casa tutta sua non l’aveva. Tra mille difficoltà si era riciclato come insegnante in una scuola media, 19 ore scarse a settimana, per poter stare sempre accanto a suo figlio. Una specie di ragazzo padre, pure precario, sepolto nella casa dei suoi. Addio sogni di gloria e forse perfino all’amore: dove la trovava una donna disposta a prendersi tutto il pacchetto? Ma non gli importava. Lui e Dario erano una carne sola. E l’illustre, si perdesse appresso alla sua fama di gloria. Un giorno avrebbe vinto il Pulitzer, Matteo ne era sicuro, ma senza sapere cos’è l’Amore.

E poi aveva avuto altro a cui pensare. Per esempio quel viaggio in Sicilia. E a quell’articolo sul Cretto, a lungo inseguito. Glielo aveva commissionato la testata giornalistica per la quale scriveva ogni tanto. Era arrivato il momento. Un giorno imprecisato di giugno. Matteo lasciò Dario alle cure amorevoli dei nonni e prese il primo volo per Palermo, una macchina in affitto all’aeroporto e dritto verso Gibellina, nel cuore della valle del Belice.

Ed eccolo lì, il Cretto, finalmente. Voleva entrarci saltando la solita trafila dei controlli. E poi perdersi in quella bellezza, senza occhi addosso. Così nascevano i suoi pezzi.

«Dove crede di andare?»

La voce di Gloria lo prese alla sprovvista.

«Non si entra mica da qui! L’ingresso principale è dall’altra parte». Aveva gli occhi color nocciola e i capelli rossi. Nel complesso minuta, ma molto bella.

Matteo la fissò come se cercasse qualcosa.

«Mi scusi, volevo soltanto fare un giro all’interno del Cretto, sono un …»

Pausa. Cos’era non lo sapeva più. O forse era diventato tante cose insieme, intrappolate in un vissuto amaro. La voce gli uscì forzatamente dalla gola.

«Non mi faccia tornare indietro. Sono un fantasma, forse anche di me stesso».

Gloria gli restituì uno sguardo pieno di tenerezza. I suoi modi gentili l’avevano colpita. Forse Matteo era davvero qualcosa di evanescente e misterioso. Ma voleva vederci chiaro.

«Va bene, faccia pure il suo giro. Se non riesce a orientarsi, sarò nei paraggi. Finisco alle sette».

«Si figuri, mi sono smarrito così tante volte nella mia vita! E poi, almeno stavolta, mi perderei dentro la bellezza».

A Matteo il Cretto sembrava un’istantanea del suo cuore pieno di ferite. Quella città che vive sotto un lenzuolo di cemento non era la metafora della sua vita?

«È sempre stato il mio sogno scrivere un pezzo sul Cretto».

Matteo ruppe di nuovo il silenzio. Poi tirò fuori il taccuino, la penna e i colori. Gloria lo fissò, interdetta. Fino alla carta e alla penna ci poteva arrivare. Ma i colori?

«Mi scusi, ma a cosa le servono? Guardi che non si possono imbrattare i vicoli del Cretto, non mi faccia passare guai».

Gloria. Bella e sola, ma di una solitudine radiosa. Per campare faceva la guida turistica. Anche lei aveva lasciato il passato alle sue spalle per perdersi ogni giorno tra quei vicoli di lava bianca. E anche il suo cuore era come quello del Cretto. Sventrato e sepolto. Quel lavoro era l’unico che aveva imparato a desiderare, e per farlo aveva riposto nel cassetto le sue vecchie ambizioni. L’amore lo aveva vissuto e l’aveva divorata. Non c’erano figli, e non ce ne sarebbero stati. C’erano il Cretto, i turni e una casa in campagna, dove viveva con il suo Jack, un cagnolino con la coda mozza che aveva raccattato per strada la notte di Natale. Jack aveva paura di tutto ma non di Gloria, che lo aveva salvato dagli attacchi del branco e degli umani. Le andava bene così. Ci aveva provato: a sposarsi, a costruire una famiglia, a fare un figlio. Ma era stata piantata in asso il giorno delle nozze. Da allora l’unico posto al mondo in cui voleva vivere era il Cretto, dove lavorava ormai da anni. E scriveva. Di tempo libero ne aveva e lo spendeva tutto con Gino, l’amico di sempre. Fin dalle elementari. Ma il suo cuore era sepolto vivo, come Gibellina sotto il lenzuolo del Cretto.

Gloria e Matteo si erano incontrati proprio lì, in quei vicoli candidi distrutti dal terremoto del ‘68. Ma si erano trovati anche nell’inferno delle loro ferite. Due fantasmi, due falliti. Così si sentivano. O forse erano solo due cuori irrisolti, che avevano smesso di cercare.

«Per i colori non preoccuparti…», la rassicurò Matteo, «non voglio profanare un luogo sacro. Il fatto è che quando scrivo aggiungo sempre un disegno. Lo faccio per mio figlio, mi lascia partire solo se gliene porto uno. Vuole sempre sapere qual è il posto in cui vado, devo pure scriverci il nome sotto».

Matteo si chiedeva spesso che bambino fosse quello che la sua stessa madre aveva rinnegato ritendendolo uno sbaglio. Un incidente di percorso? Un bambino diverso? Speciale? O suo figlio e basta?

Poi gli venne in mente che lui e Gloria non si erano nemmeno presentati.

«Mi chiamo Matteo».

«Gloria».

E mentre Gloria glielo diceva, i suoi occhi erano diventati lucidi.

«Sono una delle guide del Cretto. Anch’io preferisco i sentieri più sperduti, certo non faccio proprio come te, che ti sei inerpicato tra gli uliveti e i sassi della mia terra… Ma anche io, una volta arrivata qui, mi smarrisco e non parlo mai con nessuno, se non con qualche turista a cui devo proprio rispondere o a quelli come te, che mi ritrovo davanti all’improvviso e mi sembrano fantasmi».

Stavolta Gloria sorrise.

«Cosa disegnerai a tuo figlio?»

«Voglio riprodurre questi vicoli bianchi. Un disegno semplice, Dario pretende l’essenziale. È un gioco tutto nostro, lo facciamo fin da quand’era piccolo».

Poi Matteo pensò che sul Cretto avrebbe voluto scrivere tantissimi anni prima. Poi incollò gli occhi su Gloria. L’aria intanto stava cambiando. Tirò fuori i colori e glieli porse, con una delicatezza quasi infantile.

«Faresti un disegno per Dario? Gli dirò che è il regalo di una bella donna sicula».

Gloria si sedette su un sasso. I jeans attillati e la maglietta verde, che le cascava su una spalla, mettevano in risalto il suo corpo esile e sensuale. I capelli rossi annunciavano due occhi castani, che splendevano con la complicità del tramonto. Appoggiò la schiena sui lastroni del Cretto, afferrò i colori con disinvoltura e glielo disse a bruciapelo:

«Non so cosa disegnare. Ma la prossima volta porta Dario con te».

«Disegna un cuore, a Dario piacerà. E poi scrivi il tuo nome».

E Matteo le allungò due fogli.

«Un cuore? Ma io non so come si fa. Il mio l’ho perso tanto tempo fa».

Ma Matteo non si lasciava smontare tanto facilmente.

«Dammi il palmo della tua mano, ora ti faccio vedere».

Gloria gliela porse senza timore. Era una mano curata e impreziosita dallo smalto rosso. Velluto al tatto. Matteo la girò dolcemente e con l’indice le disegnò un cuore.

«Ecco un altro gioco che fa con suo figlio».

Gloria avrebbe voluto pensarlo, ma lo disse ad alta voce.

«No», fece Matteo, «questa è una cosa tutta nostra». Sapeva di averla letta nel pensiero.

Gloria ricambiò il suo sguardo. E si accorse che non era per niente quello di un fantasma. Ora Matteo la cingeva con gli occhi. Aveva le labbra carnose e una barba molto curata. A Gloria piacevano le sue spalle larghe e i suoi occhi castani con riverberi di pagliuzze verdi. Come il mare della sua Sicilia.

Già lo desiderava. Ma non aveva abbassato del tutto le difese.

«Una cosa nostra? Ma se siamo due perfetti sconosciuti…»

E iniziò a disegnare il cuore. Poi scrisse il suo nome sotto il disegno. Nell’altro foglio ci mise il numero del suo cellulare.

Continuava a guardare Matteo e si chiedeva che senso avesse quella strana felicità improvvisa. Erano rimasti vicini, seduti per terra, immersi tra le macerie e una bellezza magica. Finché la sera s’intromise tra loro come un maestrale fastidioso in una giornata di sole.

«Dobbiamo andare», fece Gloria, «sono quasi le otto».

Si avviarono verso l’uscita del Cretto. Quella giusta. Matteo la fissò, come per dirle qualcosa, ma tacque.

«Hai il mio numero di cellulare, puoi sempre farti vivo se torni in Sicilia, magari con Dario. Mi piacerebbe conoscerlo».

Gloria glielo sussurrò mentre entrava in macchina, col cuore a mille. Neanche il tempo di imboccare la strada per Gibellina e il suo cellulare già vibrava. Un messaggio.

«Ho un desiderio ferocissimo di baciarti. Matteo».

Gibellina non era una metropoli. Per raggiungerlo a Gloria sarebbe bastato chiedere dove alloggiasse il forestiero.

Rispose d’istinto:

«Pure io, ma non qui. Ti aspetto alle nove e mezza a casa mia, ti mando la posizione».

E, sempre col cuore in gola, chiamò Gino, il suo migliore amico, l’unico uomo al mondo con cui riusciva a parlare da quando era stata lasciata senza alcuna spiegazione dall’ex.

Gino le rispose col suo solito tono di voce vispo:

«Birra e crocchette?»

Gloria frenò la sua fantasia.

«Macché, sono piombata in un guaio meraviglioso. Ho invitato uno sconosciuto a casa mia. Oddio, non proprio uno sconosciuto. Si chiama Matteo, ci siamo conosciuti al Cretto. E ci siamo piaciuti da morire. Ma forse sto facendo una cazzata, magari gli dico di non venire…»

Dall’altra parte della cornetta il tono si fece serio: «L’unica cazzata che hai fatto nella tua vita è stata dare tutta te stessa a un uomo che non ti meritava e che ti ha devastata, sparendo nel vuoto. Tu e questo Matteo vi siete piaciuti? Bene. Sei una donna libera, non ti serve la mia approvazione, né quella di nessun altro. E goditela ‘sta vita, maledizione!»

La chiamata con Gino era appena terminata e il cellulare di Gloria tornava a vibrare. Di nuovo Matteo.

«Conto i minuti per essere da te».

Gloria gli rispose con un cuore.

«Hai visto? Ho imparato. Ti aspetto».