“Il vizio delle parole”, il racconto della domenica di Bia Cusumano

Bea, occhi di cerbiatto

“Vai ad aprire tu?… Bussano!” “Lo so, papà, ma non posso, sto ultimando un articolo che devo consegnare entro stasera. Vai tu – risposi – e anzi chiudimi la porta, lo sai che quando lavoro non desidero essere disturbata”, dissi quasi seccata. “Tu lavori sempre!”, rispose mio padre più seccato di me. “Sono in bagno, esco ora dalla doccia, che dici ci vado nudo ad aprire?” “Va bene, apro io ma chiunque sia, poi ci pensi tu. Dai asciugati in fretta, per piacere, è un articolo importante”. Mi alzai, premurandomi di salvare con cura il file, non dovesse accadere come quell’ultima volta nella quale, improvvisamente, se ne andò via la corrente elettrica e in un attimo tutte le mie parole… sparirono nel nulla! Andai alla porta con l’intento di liquidare in pochi secondi chiunque fosse e di ritornare al mio articolo. Ero stanca; era un periodo infernale ma non vi era neanche il tempo di rifletterci su tutte le cose che non erano andate per il verso giusto. Come un treno sempre in corsa che non giunge mai a destinazione… ecco come mi sentivo. Aprii e furono attimi di silenzio assoluto. Era davvero… Anna? No; impossibile! L’ultima volta che l’avevo vista fu dopo la laurea, prima che partisse per Milano, a inseguire il suo sogno. Anna, un colpo di fulmine al femminile, come io ero solita dire sempre quando incontravo una donna che poi puntualmente non usciva più dal mio cuore e dalla mia vita. No; calma, non poteva essere lei. Erano più di vent’anni, forse! Però era bella come lei, alta come lei, magra come lei, con i capelli castani chiari come lei e quegli occhi grandi e innocenti come li aveva lei in un volto sempre un po’ distratto e bizzarro.

Tutti questi pensieri, veloci come flash di ricordi e immagini sovrapposte, si mischiarono in me, insieme ai tempi dell’Università a Palermo, ai pomeriggi trascorsi in casa a ripetere filologia romanza, alle confessioni tra sogni e desideri professionali e amori inconcludenti. Ma lei voleva fare la cantante; Milano era il posto giusto! Così diceva sempre. Qua non mi noterà mai nessuno. Per i primi tempi ci eravamo scritte e chiamate; poi per anni più nulla. Forse, avevo pensato, si era trasferita altrove, forse era diventata famosa oltreoceano, forse aveva incontrato l’amore, lei che ci credeva disperatamente. Forse. Tanti forse che si affastellavano nella mia mente come l’ultimo della serie: forse era Anna. Presi voce e coraggio dopo attimi di silenzio e imbarazzo (in fondo se non fosse stata lei, che male c’era a sbagliare persona). Una delle mie tante e solite gaffes. “Anna, ma sei Tu? Proprio Tu? Sei la mia Pulce?”, e fu la cosa più naturale al mondo gettarle le braccia al collo, stringerla a me e iniziare a singhiozzare”. Non potevo crederci.

“Greta, ti ho cercato tanto da quando sono scesa in Sicilia, ma avevo perso le tue tracce, non sapevo più dove abitassi se qui oppure fossi rimasta a Palermo… Poi ho pensato a tuo padre, all’albero dei limoni, ho provato, ma davvero non credevo di potercela fare. Era più un folle sogno, una utopica possibilità. E invece… sei bella come venti anni fa, stellina mia”. “Ma dai… abbiamo quasi 45 anni che dici?” Si scostò i capelli e diede uno sguardo alla macchina posteggiata lungo la via in malo modo; in questo non era per nulla cambiata. “Posso entrare? Ma non sono sola”. Sparirono l’articolo, il PC, mio padre che urlava: “Ho finito di asciugarmi, ma chi è?”. Sparì il mondo intero. Vi era Anna, la mia migliore amica da sempre, la sua macchina posteggiata nella mia strada e una piccola personcina dentro. “Certo che puoi scendere. Ma chi c’è dentro la macchina?”, dissi, mentre in contemporanea urlai a mio padre: “Lascia stare, è per me! Poi ti spiego”. “Mia figlia”, fu la risposta di Anna. “Tua figlia?” Forse allora era sparita per questa bimba che stava dentro la macchina accovacciata con il suo orsacchiotto? Forse. Con Anna, era sempre un eterno forse. E tanto io ero decisa, determinata, volitiva, sicura, tanto lei era perennemente in uno stato di forse. Era la sua condizione esistenziale. La conoscevo troppo bene per stupirmene ancora dopo venti e passa anni. Ma ora vi era una certezza. Niente ma, forse, non so, devo capire, decidere, valutare, io vorrei ma… niente di tutto questo. Una Figlia. Una verità e un amore assoluti. “Corri a prenderla, mi sa che si è svegliata”, le dissi e poi a bassa voce continuai tra me e me: “Non ci posso credere! Proprio oggi che sembrava una banalissima giornata di marzo… e invece, in un colpo solo, la mia migliore amica che non vedo da una vita alla porta e una bimba…la sua.

Notai la sua premura di madre, la sua dolcezza, la sua cura, in questo lei sempre un po’ distratta e con la testa altrove era cambiata. La prese in braccio, con quella copertina rosa piena di fiocchetti e l’orsacchiotto. Una bimba bellissima dai capelli rossi e scomposti. Rimasi incantata. Mi parve la cosa più bella che i miei occhi potessero abbracciare e contenere nello stesso istante; un solo grammo di bellezza in più e non ci sarei riuscita. “Come si chiama?”, dissi, accarezzandole i capelli che sotto il sole calante di Sicilia brillavano di una dolcezza struggente. “Beatrice, ma puoi chiamarla Bea. Io la chiamo così”. “Sarei zia, dunque?” Mi venne da sorridere e sorrise pure lei, poi scoppiammo a ridere come ai nostri vecchi tempi. “Ciao Bea, io sono zia Greta, l’amica della tua mamma da sempre, anche se tu è la prima volta che mi vedi”. Bea sorrise, vedendo la sua mamma felice e forse pure la mia felicità piena. Arrivò mio padre, incuriosito dalle chiacchiere, risate e dalla voce di una bimba piccola alla porta di casa. “Papà, te la ricordi Anna?”, gli dissi. “Certo come potrei dimenticarla, Anna, la tua migliore amica… e – rivolto a lei – questa bimba bellissima chi è? Tua figlia? Ma lo sai che ti assomiglia… la posso prendere in braccio?” “Desiderio di essere nonno”, dissi ad Anna, strizzandole l’occhio… “La può prendere?” “Certo che sì! Bea è una bimba socievole. Nonno Marco ti porta a vedere i gatti. Li avete ancora?”, aggiunse Anna. “Sempre, – dissi io – questa è la casa dei gatti, dei limoni, dei libri e delle parole di Greta”. Bea stese le sue braccia al collo di mio padre appena sentì la parola gatti e in un attimo i due si dileguarono. Restammo io e lei. Due mondi dentro un abbraccio.

“Mi sei mancata da morire; ti dovrei dare cento boffe, lo sai? Mi hai fatto sul serio preoccupare! Sei sparita per anni ma ora sono troppo felice quindi voglio solo abbracciarti”. “Greta, sei diventata una giornalista? Lo avevi promesso a me, a te, a tuo padre, al mondo e tu, a differenza mia, le mantieni sempre le promesse”. “È una lunga storia, Anna, dopo la laurea sono successe tante cose ma mi sa che per questa sera ascolterò solo le tue”. “Posso dormire qui con Bea?” “Che hai bisogno di prenotazioni tu?”, dissi. “Non voglio tornare a casa dei miei, non dopo averti ritrovata, ora faccio una chiamata veloce e dico che resto fuori, tanto Bea ormai mangia tutto. E io mi metto un pigiama tuo; sei proprio fatta magra”. “Mai quanto te”, dissi. “Che c’entra? Io sono più alta”. Sì, c’era la stessa complicità di sempre, era come se non fosse passato neanche un giorno, altro che venti anni! Eravamo sempre io e Anna, solo che ora c’era pure Bea con noi.

Bea rincorreva i gatti; mio padre la seguiva passo passo con la paura da nonno mancato che cadesse e si facesse male; ma lei non si faceva prendere e Artù, il nostro gatto, nemmeno. Era una scena meravigliosa da guardare, mentre il sole tramontava su quella stranissima giornata di marzo, e Anna e io eravamo lì insieme dopo vent’anni accoccolate in un abbraccio che nemmeno mille parole avrebbero potuto spiegare. “Saliamo su – le dissi – nel mio appartamento. Per scrivere mi metto nello studio di mio padre, ormai è un rito”. “E tu sei la donna dei riti, Greta, lo so! Accendi ancora le candele la sera, ascolti musica e bevi passito, mentre guardi le stelle? Scrivi con il rossetto rosso sugli specchi e sulle pareti? E poi le mani e le unghie… guardati sempre curate… tutto l’esatto opposto mio”. “Ma tu hai una figlia – dissi – che c’entra? È così vivace che non credo ti lasci molto tempo per te stessa!” “Hai ragione – disse – anche perché l’ho fatta sola!” “Sola? – dissi – Lui dove è? (O forse dovrei dire lui chi è? Ma non dissi nulla). Saliamo su, Bea resta qua con nonno Marco a rincorrere i gatti e a farsi rincorrere; noi ci metteremo comode sul divano e mi racconterai. Io giuro… starò zitta!”

Salimmo abbracciate e quegli scalini mi parvero più infiniti di quelli del primo piano dell’Università di Palermo quando andavamo a fare gli esami insieme. “Che bello – disse – il tuo regno! Se avessi dovuto immaginarti in un posto ti avrei immaginato esattamente qui: libri disseminati ovunque, la botte di tuo nonno restaurata, la macchina da cucire di tua nonna, la piantana, il divano a elle, cuscini e candele dappertutto, il camino, la cantinetta di passiti, marsala e zibibbo e poi il PC e la musica… che bello questo porticato! Travi a vista, parquet ai pavimenti, quadri e versi scritti sulle pareti… se qualcuno volesse sapere chi sei non avrebbe bisogno d’altro che entrare in questo appartamento. Offrimi un passito e accendi il camino. Restiamo qua io e te, Greta, e dimmi che posso ricominciare ancora, con una bimba di tre anni, un amore in macerie, un cuore spezzato e un sogno di cantante buttato nel cesso”. “Non ti dirò un bel niente, testa matta! – dissi. Tanto lo sai che non ho da parlare adesso, non almeno questa sera, poi domani, durante il rito della colazione, parlerò. Fai quella chiamata veloce, non fare preoccupare i tuoi, ti prego. Ho saputo di tua sorella, mi spiace da morire, amica mia. Faccio una telefonata anche io, dico al direttore che domani non vado, resto con te. Dormiamo nel mio lettone, io, tu e Bea. Ce la mettiamo nel mezzo, io una figlia non ce l’ho ma se l’avessi fatta l’avrei voluta così, con quei capelli rossi e quegli occhi di cerbiatto. Giuro che sarò una ottima zia ma tu non scomparire più. Non è con la fuga che si risolvono i problemi. Basta fuggire Anna; casa tua è qui. Lascia stare il resto. Troveremo una soluzione a tutto, giuro, ti aiuterò come ho sempre fatto. Ma basta forse, domani, vedremo, devo capire, non so, devo riflettere, ho bisogno di tempo, vado via che qui soffoco, basta fuggire. A un certo punto ci si ferma, si sceglie. Forse, se vuoi, si getta l’ancora ma questo non significa non coltivare sogni, passioni, desideri, non avere slanci. Solo che si diventa adulti, si sceglie di appartenere, di avere il proprio mondo, la propria Itaca. Non puoi continuare a fuggire da tutti, da tutto, da te stessa. Forse adesso che c’è Bea, puoi fermarti. Dio mio, meno male che sei diventata madre, e che tu sia senza lui e che io non sappia chi sia, non importa nemmeno questo adesso. Capirai, capirò pure io. Importa che ti fermi, respiri e aspetti. Ché tutto prima o poi si ricompone come la polvere quando scende sui mobili, a poco a poco, impercettibilmente senza che ce ne se ne renda conto”.

Anna mi guardò: “Non vale! Avevi detto che non parlavi… ma tu non puoi farne a meno… lo so è più forte di te, tu vivi di parole come io vivevo di Lui, credimi e per lui ho rinunciato perfino a fare la cantante. Che doveva farci una cantante in una famiglia di imprenditori? L’arte non dà il pane. I lavori che davvero contano sono altri. Essere imprenditori, manager, fare carriera, collezionare titoli, avere il curriculum migliore del mondo, corsi su corsi, titoli su titoli. No cantare, no suonare il pianoforte, no scrivere testi, no fare interviste, no essere ospite di trasmissioni televisive e radiofoniche… baggianate! I sogni, le passioni, i desideri non contano nulla! Ma neanche una famiglia, un matrimonio, una casa, un figlio! Ma quale Itaca? E gli avrei dovuto dire di Bea? Non la voleva Bea, se no dopo cinque anni non mi avrebbe ancora tenuta nascosta come una amante per tornare nel suo palazzo alle tre di notte da mamma e papà. A questa ora sarebbe qui con me e Bea. L’ho lasciato il giorno in cui ho scoperto di essere incinta. Non glielo ho mai detto. Mi ha reso un’ombra, una larva, una donna inesistente e mai all’altezza delle sue eterne insicurezze e delle aspettative dei suoi. Mi sono stancata, ho fatto le valigie, gli ho lasciato un foglietto sul tavolo della mia cucina con su scritto: “Con te è impossibile costruire un futuro”. Cinque anni sono troppi, Greta, ho rinunciato a tutto, nemmeno madre sarei diventata, se glielo avessi chiesto. Uno sbaglio è stato; meno male per me. Io non lo vedo e non lo sento da allora. Non si tengono le persone nei limbi. O ami o non ami. O lasci o prendi. Non eternamente sulla soglia. A un certo punto pure io ero disposta a fermarmi. Lo amavo. Ora lo odio ma vedo in Bea ogni giorno Lui, i suoi capelli rossicci, il suo sguardo malinconico, le sue mani bellissime, il colore della sua pelle, la sua intelligenza acuta, i suoi tanti perché. Ma non era pronto per diventare marito, padre, in fondo adulto. O forse semplicemente non mi amava. Forse meglio la carriera per lui. Meglio lì dove è rimasto. Nel palazzo con mamma e papà. Volevo solo quello che hai tu, Greta, una casa, una vita semplice, lui accanto e la nostra Bea. Cantare sì ma amare non significa rinunciare ai sogni. Guarda Bea… non è bellissima? Vale più lei che tutta la sua carriera e i suoi infiniti titoli, tanto non gli basteranno mai ad essere felice! Non mi importa di essere “morta di fame” e che lui invece abbia i soldi e una carriera brillante. Io sono felice così, del mio nulla (come ti sei ridotta male, una volta mi disse) ma ogni notte quando stringo tra le braccia Bea, la mia Itaca io ce l’ho. Sì; io mi sono fermata, Greta. Volevo solo che si fermasse pure lui. Per me, per noi, per Bea”. “Mamma… ho fame”. Era Bea e di tutte quelle parole scaraventate addosso così come una valanga da Anna restò solo quel “ho fame”.

Su una cosa aveva ragione; Bea era davvero bellissima. Non solo perché era figlia della mia migliore amica ma perché aveva portato d’un tratto nella casa dei limoni e dei gatti Itaca. Aveva portato il suo brio, la sua voce, il suo orsacchiotto, la copertina rosa con i fiocchetti, le sue corse appresso Artù e mi aveva donato in un attimo, la voglia di chiudere il PC, lasciare in asso l’articolo, correre giù per le scale e prenderla in braccio. Così feci. Lasciai Anna continuare a ruzzolare parole e corsi giù per le scale, la presi in braccio, io che ancora non lo avevo fatto, la guardai fissa negli occhi cerulei e le dissi: “Ho scritto centinaia di poesie nella mia vita, ma tu, tu sei davvero la più bella!” Bea la bimba dagli occhi di cerbiatto, aveva scomposto e rimescolato tutto il mio mondo perfetto, era il più bel caos improvviso accaduto nella mia vita. “Zia Greta” – disse e mi abbracciò stretta stretta – la mia mamma non mi sente, io ho fame!”