Vicenda Quirinale, le pagelle di Pumilia: tre a Salvini, zero a Grillo

ITALIA- DI CALOGERO PUMILIA

Sarà poco elegante, ma posso dire di averlo previsto, di avere scritto su questo giornale qualche settimana fa: finirà con la rielezione di Mattarella. Ed è finita così. Senza avere particolari doti di preveggenza, avevo visto giusto. Era perfino facile. Bastava partire da poche considerazioni, dall’esigenza di stabilità per consentire al governo di continuare a lavorare, dalla frammentazione del Parlamento dove non c’è un partito egemone e dove non esistono solide coalizioni, dalla volontà di deputati e senatori di arrivare al termine della legislatura. Se, poi, si aggiunge il ruolo di “incoronatore”, di king-maker affidato a Salvini o da lui stesso preteso, di un personaggio in perenne e incomponibile lite con la misura, con il buongusto e con la politica, il pronostico risultava perfino agevole.

Dopo alcune giornate imbarazzanti, lui, il capitan Fracassa e tutti gli altri si sono resi conto che il gioco non era alla portata delle loro capacità o meglio, glielo hanno fatto capire gli spregiati “peones”, costringendoli a smettere di girare in tondo senza meta e senza regole. Non me ne vorranno i lettori, se assumo per una volta il ruolo algido del maestrino. Ma così per gioco, mi va di dare i voti ad alcuni dei protagonisti di questa vicenda.

A Berlusconi, che per giorni ha tenuto accesi su di sé i riflettori di tutti i mezzi di comunicazione, andando a caccia di scoiattoli, che ha cercato con il consueto impegno, di scalare il Quirinale anche per mantenere l’antica promessa fatta alla madre, che ha costretto i suoi alleati a sostenere che sarebbe stato un ottimo padre della patria, con la stessa disinvolta abilità con la quale, anni addietro, aveva indotto i suoi parlamentari a confermare che Ruby fosse la nipote di Mubarak, a Berlusconi dò un bel sei, per così dire alla carriera, posto che la carriera finisca qui. Forse non è meritato o, se volete, non è obiettivo, ma è il risultato di un calcolo interessato. Fra due anni, in occasione delle prossime elezioni comunali, sono tentato di tenere sulla corda i miei compaesani, riproponendo la candidatura e sperando di trovare qualcuno che a quel tempo finga di secondarmi.

Draghi merita la sufficienza sommando un quattro per il modo non proprio raffinato e confacente alla sua storia con il quale ha lasciato capire di volere arrivare alla presidenza della Repubblica e un otto per avere rotto l’incantesimo ed essere tornato, prima degli altri, a Mattarella.

Conte rimane molto lontano dalla sufficienza. Per il ruolo impegnativo e pomposo di “capo politico” ancora una volta è risultato del tutto inadeguato e, quando ha tentato di accreditarsi con frequenti, ovvie cascate di parole, spesso contraddittorie e prive di senso, ha dato prova evidente di inidoneità. Il professore con la pochette in questi giorni è stato alleato della sinistra, ha trescato con Salvini, ha tentato di ribaltare la maggioranza di governo e di portare il suo riluttante esercito, che non ha potuto nascondere le tante fratture che lo attraversano, alle elezioni anticipate. Ad un certo punto non ha capito più nulla, a nessuno ha potuto dare affidamento ed è stato ricondotto alla sua funzione decorativa da Luigi Di Maio che merita un buon voto per l’applicazione, lo zelo e l’imprevista attitudine al ruolo.

Grillo, il comico ormai fuori dalle scene, non può essere classificato. Ha sbagliato il tempo del suo ingresso con un tweet a sostegno della Belloni, scritto quando quella candidatura era già tramontata.

Sette e mezzo a Renzi che ha mostrato di saper padroneggiare meglio di altri i meccanismi della politica, di avere un certo senso delle istituzioni, che ha smentito l’accusa di poter essere indifferentemente a destra e a sinistra e che ha saputo ritrovare una imprevista sintonia con il Partito democratico per sventare la sbilenca strategia della destra. Avesse avuto la stessa misura e non avesse sciupato con velenose rotture e con lucrose, discutibili consulenze la sua antica empatia potrebbe essere un buon leader.

Un sei lo dò a Casini che è arrivato vicino al Colle ed ha accettato con un certo stile la conclusione della corsa. Avrebbe fatto la sua bella figura in mezzo ai corazzieri e forse anche lui, sgusciante abitante del centro, della destra e della sinistra, abile a nascondere la “leggerezza” delle convinzioni con la simpatia, i modi accattivanti e garbati del vecchio democristiano doroteo, sarebbe potuto essere un buon presidente. Anche su di lui avrebbe potuto scendere la “grazia di Stato” che, a quanto pare, spetta ai cattolici, anche a quelli tra noi peccatori impenitenti.

Sufficienza piena va a Letta. Ha giocato la partita tutta in difesa, un “catenacciaro” alla Trapattoni. Non ha mai superato il centrocampo e non ha fatto un tiro in porta. Ha saputo, però, contenere l’irruento e incapace avversario, aspettando che facesse autogol per vincere. Ha, così, velato le divisioni interne al suo partito e ha finto con ottima disinvoltura che esistesse un centro- sinistra.

Anche Meloni merita la sufficienza. Ha tentato senza risultato di tenere unito il centro-destra, di sfasciare la maggioranza, non ha potuto partecipare alla partita, non è stata in grado di modificarne l’esito e, tuttavia, ha mantenuto un buon profilo ed è apparsa abbastanza coerente.

Che voto dare a Salvini? Ad uno che inonda televisioni e giornali, che parla, parla, dice, si contraddice, propone e poi ritira, esalta la forza e il diritto della destra e sciupa l’una e perde l’altro, che mai vi sarebbe stato un altro presidente proveniente dalla sinistra, che compulsa affannosamente l’elenco telefonico alla ricerca di un nome scritto in grassetto e, magari solo per quello, ritenuto di alto profilo, che nei momenti topici della politica dimostra di essere l’avversario che tutti vorrebbero: un Rodomonte pronto ad abbattere i muri e che finisce per imparpugliarsi con la sua ombra? A Salvini un tre. E insieme l’obbligo di imparare i pronomi personali che seguono il primo io, io, io e a scrivere mille volte noi, noi, noi…, per migliorare un linguaggio molto povero e ridurre la smisurata egolatria, segno di immaturità e a smettere di bere mojito per uscire da una sorta di permanente stato etilico.

All’ignoto parlamentare, a quello che ha vissuto con l’adrenalina a mille queste giornate, riandando alla infelice scelta di ridurre il numero dei deputati e dei senatori, che ha fatto e rifatto innumerevoli volte il conto delle mesate che gli spettano da qui al termine del mandato, che ha pensato con angoscia a cosa fare dopo, un otto pieno per avere indicato agli sprovveduti leader la strada che portava a Mattarella e per avere ridato, forse, senza neppure capirlo, una funzione al Parlamento.

A Mattarella, infine, dieci per come ha operato nei sette anni passati e ancora dieci in anticipo fiduciario per come impiegherà i prossimi. Dieci più, poi, per la sapienza con la quale ha sostenuto con determinata convinzione l’inopportunità di una riconferma, tenendo, tuttavia, aperto il telefono ove mai fosse stato chiamato per proseguire nell’interesse del Paese.