Domani sera presentazione del libro “Hedia”, il mercantile scomparso con venti uomini (c’era il saccense Graffeo)

SCIACCA. Sarà presentato domani sera, alle ore 20;30 al Circolo Nautico “Il Corallo, Mimmo Marchica”, il libro Hedia, la storia del mercantile  scomparso  con il suo equipaggio di venti uomini di cui diciannove italiani e un gallese, alcuni di questi appena ventenni e al loro primo viaggio. Tra l’equipaggio anche un saccense.

Il 14 marzo 1962 il mercantile da carico HEDIA inviava un messaggio all’agente marittimo di Venezia dalla zona di mare  prospiciente l’isola della Galite, al confine tra le acque algerine e quelle tunisine. Fu il suo ultimo messaggio. La nave HEDIA era un “cargo” di modesto tonnellaggio classificabile come “carretta del mare”. Vecchia di cinquant’anni, risultava ufficialmente della Compagnia General Naviera S.A. di Panama con sede legale presso il Banco di Roma di Lugano e batteva bandiera liberiana, anche se di fatto il suo porto di armamento era da situare nella città Venezia e quasi sicuramente il suo proprietario era l’agente marittimo residente nella stessa città.

Nel periodo in cui è accaduta la sparizione della nave si consumava il tragico, sanguinosissimo epilogo del dominio coloniale francese in Algeria. Durante gli otto anni della Guerra di Algeria numerosi furono i sequestri operati da parte della Marina Militare Francese di navi “gun runners” utilizzate per fornire armi agli insorti algerini del Fronte di Liberazione Nazionale (F.L.N.) che combatteva le truppe e le formazioni paramilitari francesi.

Da parte sua la Francia operava un feroce contrasto utilizzando ogni mezzo, tra cui la tortura dei prigionieri e gli omicidi mirati estesi non solo all’Algeria, ma a tutto il territorio europeo. È ormai storicamente accertato che tra i fornitori di armi al F.L.N. ci fosse anche l’E.N.I. di Enrico Mattei, mosso da evidenti convenienze commerciali legate alle risorse energetiche Algerine.

Da ricerche effettuate a titolo privato per anni da alcuni parenti degli scomparsi della nave HEDIA si sospetta a buon titolo che il mercantile sia stato coinvolto in questi traffici di armi per conto dell’azienda petrolifera di Stato.

Elementi e indizi raccolti da questi cittadini fanno ritenere che nave ed equipaggio non siano stati vittime di un naufragio accaduto per tragica fatalità, ma siano stati sequestrati dalle autorità francesi e successivamente fatti scomparire, molto probabilmente come messaggio occulto, ma inequivocabile, allo Stato Italiano perché si attivasse nel far desistere la sua compagnia petrolifera dal fornire armi agli insorti.

A suffragare questa ipotesi è stata riportata la testimonianza di un triestino, padre di uno dei marinai scomparsi, il quale disse all’epoca di aver parlato con un suo conoscente giovane ufficiale della Marina Militare di nome Fulvio Martini il quale prestava allora servizio presso il S.I.O.S. Marina e che divenne in seguito capo del S.I.S.MI. Sempre secondo quanto detto dal signore triestino, l’ufficiale gli confidò che l’equipaggio era salvo, ma che per “gravi motivi di sicurezza” non poteva fare il nome del luogo in cui si trovava, confermando inoltre che il figlio del conoscente era salvo.  Forse la Marina Militare Italiana sapeva e continua a sapere che la Hedia era finita nelle mani francesi?

Un ulteriore elemento è quanto detto, sempre all’epoca dei fatti, da un sacerdote di Sciacca, Don Michele Arena, alla madre di un altro componente dell’equipaggio scomparso. Il sacerdote, insignito nel 1923 della Legion d’Onore, massima onorificenza francese, godeva in Francia di grandissimo credito e di importanti amicizie.

Egli disse di aver assistito ad una telefonata fatta dal ministro “plenipotenziario”, che all’epoca doveva essere Bruno Archi, ad una autorità francese, nella quale il ministro, a sua detta, aveva ricevuto conferma del fatto che l’equipaggio della nave Hedia era stato fatto prigioniero.

Sempre la stessa signora siciliana disse inoltre di aver sentito pronunciare nell’estate del ’63 dal Presidente del Consiglio on. Amintore Fanfani, a margine di un incontro con i parenti dei marittimi della HEDIA, la criptica frase: ‹‹Per venti persone non si può fare una guerra››.

In contrasto con la paziente e determinata ricerca dei citati parenti dei marittimi scomparsi non risulta che le istituzione competenti si siano realmente impegnate nel fare luce sul reale accaduto.

Ad esempio, per quanto riguarda l’aspetto giudiziario non si è mai avuta notizia di un avvio di indagini, degne di questo nome, da parte della Magistratura.

Anche le interrogazioni parlamentari presentate negli anni 1962 – 1964 – 1965  hanno ricevuto solo risposte definibili “di maniera” a dir poco evasive, che comunque non gettavano la sia pur minima luce sull’accaduto, ma che lasciano supporre che si volesse accreditare l’ipotesi più comoda, ovvero quella della disgrazia, per mascherare verità più scottanti e imbarazzanti. Tanto i morti non possono più parlare.

È peraltro lecito e logico pensare che la vicenda, qualora abbia realmente coinvolto la più importante azienda di Stato, rappresentasse all’epoca una fonte di grave imbarazzo per l’Italia, particolarmente considerando lo scenario geopolitico mondiale dell’epoca dominato dalla Guerra Fredda.

È obbligo morale delle Istituzioni fare tutto il possibile per rispondere oggi, seppur tardivamente, alla domanda se diciannove marittimi italiani siano morti sull’altare della lotta tra interessi economici delle multinazionali del petrolio, contesa internazionale che tra l’altro ha causato anche la morte di uno dei suoi maggiori protagonisti, Enrico Mattei, vittima di un gravissimo attentato a cui la Giustizia, dopo decine e decine di anni spesi in un interminabile e Kafkiano iter giudiziario ha dato una risposta che rimane ancora oggi incompleta e indefinita nei suoi più importanti aspetti.

Non è accettabile che convenienze ed opportunismi, politici e non, coprono ancora a distanza di tanti anni vicende che ormai non hanno ragione di essere ulteriormente occultate, tanto più in quanto lo scenario geopolitico internazionale è mutato e le figure di spicco sia a livello nazionale che internazionale coinvolte sono da tempo scomparse.

La storia non può e non deve essere oggetto di tentativi di modifica strumentale e demagogica o di operazioni di mimetismo e occultazione a fini di protezione del sistema di potere. La democrazia e la credibilità richiedono a tutti, politici, Istituzioni dello Stato, cittadini, di avere la massima lealtà e trasparenza circa le vicende che coinvolgono il Paese.

La democrazia impone  il coraggio di portare alla luce tutti gli accadimenti che nel passato hanno offuscato lo spirito civile e democratico della Nazione, anche se questi costituiscono motivo di imbarazzo perché condotti contro ogni etica morale, in contrasto con la Costituzione e le Leggi dello Stato.