Pumilia: “Contro la mafia non si volle seguire quella strada che fu efficace nella lotta al terrorismo”

DI CALOGERO PUMILIA.  Ciò che ha detto Violante mi offre la possibilità di tornare su un aspetto che ho affrontato nei miei precedenti scritti. I mutamenti che stavano avvenendo in Europa, la crescente fragilità del partito di maggioranza relativa, l’inefficienza delle strutture dello Stato e la diffusione dei fenomeni corruttivi, inducevano i comunisti a ritenere che vi fossero le condizioni per rompere lo schema fino ad allora parso immutabile, quello che assegnava alla Democrazia cristiana la guida del governo e li relegava ad un ruolo di permanente opposizione.

Sorgevano, poi, nuovi raggruppamenti caratterizzati da una visione millenaristica, da una sorta di proto populismo e da una prorompente voglia di abbattere gli equilibri sui quali fino ad allora si era retto il confronto politico. Si rafforzava la speranza di poter dare una spallata decisiva agli assetti della prima Repubblica. In questo contesto, su ogni altra esigenza, anche su quella di trovare l’unità delle forze politiche per fronteggiare e sconfiggere la mafia e per fermare il suo straripante, tragico potere, prevalse una esigenza tattica e in qualche misura strumentale. Non si poté o non si volle seguire la strada che era stata percorsa nella lotta al terrorismo, sconfitto dalla intransigente difesa dello Stato democratico con il concorso di tutti i partiti. Forse non era altrettanto agevole per la realtà della mafia, che aveva sviluppato diffuse metastasi e si era infiltrata in alcuni settori dello Stato.

Se, superando queste difficoltà, se non fosse stata ritenuta strumentale la posizione di taluni, di Andreotti in particolare, che se anche lo fosse stata, non fermò i provvedimenti voluti da Falcone e spiazzò coloro che avrebbero dato affidamenti alla mafia, se si fosse imboccata la via praticata contro il terrorismo anche contro la mafia, se si fosse evitata la tentazione di regolare i conti con la storia, per preparare una stagione nuova dell’Italia che poi – eterogenesi dei fini – assunse l’aureolare, innovativa immagine di Berlusconi, probabilmente gli esiti sarebbero stati diversi e sarebbe stato possibile per la Democrazia cristiana abbandonare comportamenti discutibili e di inopportuna cautela e prendere le distanze da alcuni suoi esponenti.

La convinzione, arbitraria eppure efficace, secondo la quale tutti i partiti di governo, l’assetto complessivo della prima Repubblica, fossero un ostacolo da abbattere, perché interamente compenetrati di malaffare e criminalità, indusse a scegliere lo scontro. In questa logica, l’uomo che più di ogni altro aveva individuato e messo a punto strumenti estremamente efficaci per il contrasto alla mafia, veniva individuato come parte dello schieramento da delegittimare e da battere. Quale lettura poteva essere data nei covi dei criminali di una realtà che vedeva, da una parte il governo e le forze di maggioranza impegnati a mettere a punto mezzi sempre più duri per contrastare il crimine organizzato, e dall’altra un coacervo di forze che, proclamando costantemente elevati principi, affermando volontà di radicale rinnovamento ed esigenza imprescindibile di voltare pagina, si mettevano di traverso in Parlamento, nelle altre istituzioni, sulla stampa e su tutti i mezzi di comunicazione e processavano e condannavano nelle piazze, specie in quelle virtuali, quasi tutti e, anche, Falcone? Forse era questo uno schema rozzo, come del resto lo è sempre stata la tragica realtà di mafia, ma a volte il mondo pare che giri al contrario.