I grillini alla ricerca dell’identità perduta e la gogna dei vitalizi per riscoprire se stessi

DI CALOGERO PUMILIA. I parlamentari Cinque stelle gridano con quanto fiato hanno in gola e il loro quotidiano scrive parole di fuoco e di fiele contro la decisione del consiglio di garanzia del Senato, organismo di appello della giurisdizione interna, che ha confermato il diritto al vitalizio per Roberto Formigoni – il “celeste”, così veniva esaltato al tempo del potere, o il “corrotto”, dopo le barche e le ville di lusso, frutto di illeciti vantaggi – condannato in via definitiva a cinque anni e dieci mesi per reati commessi da presidente della Regione Lombardia nella gestione della sanità.

A fronte della costante disinformazione che da anni ha fatto breccia tra la gente ed ha creato convinzioni radicate, forse serve a poco una breve puntualizzazione. Le indennità parlamentari e il conseguente trattamento pensionistico – i vitalizi – sono stati introdotti diversi decenni addietro per consentire a tutti i cittadini e non solo ai ricchi di accedere alla Camera e al Senato, per liberare i rappresentanti del popolo, i legislatori, dai condizionamenti economici, per fare una buona selezione almeno fino a quando i parlamentari venivano eletti e non nominati, per offrire la possibilità di tracciare un percorso di vita su prospettive certe.

Sulla base di questo presupposto e per eliminare taluni abusi insopportabili, i vitalizi sono stati aboliti nel 2012 e i compensi degli ex parlamentari ridotti in qualche caso fino all’80%. È un argomento questo che, a tirarlo fuori, suscita commenti sicuramente non benevoli, dei quali chi scrive non ha alcuna preoccupazione e non può certo averne un giornale che si dice dell’”irriverenza”.

Torniamo ai fatti. I presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso, nel 2015 decisero di revocare il vitalizio ai parlamentari che avessero subito una condanna definitiva con una pena superiore a due anni. La scelta, che non accontentò i Cinque stelle perché la ritennero troppo blanda, si richiamava, con un’interpretazione estensiva, ad una legge del 2012 che prevedeva giusto la revoca di prestazioni pensionistiche a coloro che si erano macchiati di reati di terrorismo, di strage e di mafia. Tra coloro che incapparono nella delibera dei presidenti delle due Camere, vi furono Formigoni e Ottaviano Del Turco, ex segretario generale della CGIL e ultimo segretario nazionale del Partito socialista, anch’egli condannato in via definitiva a tre anni e undici mesi. I due, protagonisti della politica nazionale con storie e ruoli diversi, ricorsero alla commissione contenziosi del Senato, organo di giurisdizione di primo grado, contestando l’illegittimità del provvedimento e rappresentando la loro difficile condizione economica, nel caso di Del Turco, anche quella della salute. Il ricorso si è basato principalmente su un articolo del decreto legge che, nel gennaio del 2019, introdusse il famoso reddito di cittadinanza, fiore all’occhiello del Movimento cinque stelle, articolo che prevede la cancellazione del trattamento pensionistico solo per chi, pur non avendo commesso reati di terrorismo e di mafia, si è sottratto alla pena o è evaso.

Per un bizzarro capriccio del destino, la rete nella quale sono rimasti impigliati i grillini l’avevano intrecciata e gettata proprio loro, mostrando, ancora una volta, come sta succedendo con lo statuto del Movimento e la complessità delle sue regole, con gli inestricabili rapporti con la piattaforma Rousseau, quanto siano bravi a farsi del male da soli, a “’mpidugliarsi”. Formigoni e Del Turco non erano accusati di reati di mafia e di terrorismo, non si erano sottratti alla detenzione, non erano evasi e pertanto non dovevano subire la pena accessoria della revoca del vitalizio. Entrambi erano stati processati e condannati per episodi oggettivamente odiosi che si riferivano alla sanità nelle loro regioni e che fanno senso specialmente nel tempo della pandemia.

Uno di loro, poi, è diventato molto inviso. Parlo di Formigoni, che ho conosciuto e che ho ritenuto scostante, arrogante, clericale nel senso peggiore del termine, un uomo con uno stile di vita non proprio conforme alla militanza in Comunione e Liberazione, il movimento di laici cattolici fondato da don Luigi Giussani con l’obiettivo principale di improntare i comportamenti degli aderenti al messaggio di fede cristiana.

Formigoni ha fatto di tutto per risultare detestabile e per diventare uno degli archetipi del politico corrotto. Egli, come Del Turco, sulla cui vicenda, malgrado la condanna definitiva, rimangono alcuni interrogativi, ha commesso reati, ha subito le condanne previste dal codice penale, ha perduto potere e privilegi, ha pagato pesantemente anche sul piano della immagine e su quello umano e familiare. Tutto normale e giusto. Ma qui il rapporto di entrambi con la giustizia, come quello di tutti i cittadini condannati, si chiude. Non può esserci una pena accessoria frutto di convenienze politiche, utile per la ricerca del consenso. I due parlamentari, malgrado si debba essere giustamente rigorosi nei confronti di chi esercita ruoli pubblici, non devono diventare destinatari dell’odio sociale, del sentimento primitivo della vendetta, della “fine pena mai”. Questo non è il terreno della buona politica, dell’onestà, del rinnovamento sociale, dell’esigenza di un’etica rigorosa, del rispetto della legalità nella gestione del potere.

È il terreno della gogna e dell’oltraggio, con i quali non si costruisce il nuovo, si alimenta la demagogia, si screditano le istituzioni rappresentative.